Rendimenti americani a 10 anni sopra l’1,40%, a 30 anni quasi al 2,30%. E’ un mercato obbligazionario globale in pieno subbuglio. Da settimane, i prezzi dei bond arretrano e per contro s’impennano i rendimenti. E’ quello che gli analisti chiamano il “reflation trade”, vale a dire il riposizionamento degli investitori per scontare l’arrivo dell’inflazione. Negli USA, è salita all’1,4%, nell’Eurozona allo 0,9%. Poca roba per parlare di rischio sul fronte della stabilità dei prezzi, ma è la velocità con cui si sta passando da uno scenario deflattivo a uno inflattivo a sorprendere anche coloro che avevano previsto un simile trend.
Se si legge ciò che sta avvenendo sui mercati, ci si accorge che sta rincarando tutto. Il petrolio si è portato ai massimi da gennaio 2020, prima che la pandemia occupasse le prime pagine dei quotidiani mondiali. Il rame è risalito, addirittura, ai massimi da settembre 2011, oltrepassando la soglia dei 9.000 dollari per tonnellata. Il Bitcoin tra alti e bassi è schizzato fin sopra i 58 mila dollari, anche se ieri non
arrivava a 50 mila, pur guadagnando quest’anno quasi il 70%.
Cosa succede? Siamo ancora in piena pandemia, tra “lockdown” e vaccinazioni. Eppure, gli assets finanziari, compreso il mercato azionario, viaggiano su valori stratosferici. Esistono titoli come Tesla che si comprano ormai a circa 1.100 volte gli utili. Tutto sembra in bolla finanziaria. E la ragione è fin troppo elementare per essere ignorata: c’è eccessiva liquidità in circolazione. Nell’ultimo anno, negli USA la Federal Reserve ne ha iniettata per circa 3.400 miliardi di dollari, attraverso acquisti massicci di bond. Nel frattempo, il governo americano ha stanziato stimoli fiscali per 6.000 miliardi, di cui 1.900 in corso di approvazione al Congresso. Parliamo di qualcosa come circa il 45% del PIL.
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Il rischio iperinflazione
Secondo il Congressional Budget Office, l’ufficio che si occupa di monitorare i bilanci (e non solo) federali, l’output gap attualmente sarebbe stimabile come circa 50 miliardi di dollari al mese e tendente ai 20 miliardi entro fine anno.
Michael Burry, l’uomo che fece una fortuna con la crisi dei mutui subprime nel 2008, avendone previsto il tracollo, oggi parla di “rischio iperinflazione”. Eccessivo, almeno in apparenza. Se le banche centrali non sono riuscite nell’ultimo decennio a centrare i rispettivi target d’inflazione, subiranno mai una tale infamia? Premesso che averci azzeccato una volta non implichi anche di essere diventato un profeta in pianta stabile dell’economia (vedi Nouriel Roubini), il punto è un altro: non puoi pensare di continuare a iniettare all’infinito liquidità, mentre costringi le attività a fermarsi e le famiglie a stare rinchiuse in casa o a muoversi con restrizioni. Se la produzione collassa e la liquidità in circolazione aumenta, si crea un mix letale per la stabilità dei prezzi.
L’iperinflazione propriamente detta consiste in una crescita dei prezzi mensile di almeno il 50%. Su base annua, farebbe come minimo il 1.300%. Numeri che ci appaiono lontanissimi da uno scenario realistico. Eppure, l’iperinflazione non ha mai avvisato nessuno stato in cui è esplosa. La monetizzazione dei debiti ne è stata quasi sempre, per non dire sempre, l’origine. E questo sta accadendo in questi mesi: ti pago per restare a casa, prendendo a prestito denaro sul mercato che pago poco o niente grazie alla banca centrale.
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