La Turchia è sempre più nei guai. Nonostante le banche domestiche abbiano sostenuto il cambio vendendo assets in valute straniere per 30 miliardi di dollari quest’anno, la lira turca è arrivata a perdere un altro 15% contro il biglietto verde e attualmente si attesta a un rapporto vicino a 7, essendo scesa sotto tale soglia solo per l’intervento della banca centrale. Le riserve valutarie si stanno prosciugando a ritmi preoccupanti. Il loro valore lordo era stimato a 59 miliardi a fine marzo, giù dai 76 del mese precedente.
Inflazione in calo anche in aprile, ma la Turchia resta off-limits per i bond
Insomma, ci sono troppo pochi dollari in cassa per pagare i debiti esteri di stato, famiglie e imprese, tant’è che Ankara sta cercando disperatamente di ottenere accordi valutari tramite operazioni di “swap” con almeno Regno Unito e Giappone, non essendo stata inserita nella lista della Federal Reserve, in quanto ritenuta controparte non credibile dell’America. Si rischia una seconda tempesta valutaria in due anni, troppo per il pur saldamente al potere presidente Erdogan, la cui popolarità sembra scemare.
La crisi economica internazionale ha aggravato il saldo delle partite correnti a marzo, risultato negativo di 4,9 miliardi di dollari, oltre quattro volte più dei -1,15 miliardi registrati a febbraio. Il crollo delle presenze turistiche priva la Turchia di dollari preziosi in ingresso e che stanno più che compensando i risparmi dovuti allo sprofondamento delle quotazioni petrolifere. Ce ne sarebbe per fare scattare l’allerta sui bond denominati in valute estere, ma la spia sui mercati non sembra essersi affatto accesa. E dire che i “credit default swaps” a 5 anni segnalino per Ankara un rischio sovrano di inadempienza superiore ormai al 10%, ai massimi da anni, il terzo più alto al mondo dopo Venezuela (già fallita) e l’Argentina, quest’ultima prossima al terzo default degli anni Duemila.
Bond in dollari sovrastimati?
Oggi, il bond a 5 anni in dollari con scadenza febbraio 2025 e cedola 7,375% (ISIN: US900123AW05) offre un rendimento del 7,05%, avendo perso circa il 10,5% da inizio febbraio, cioè prima che si propagasse la pandemia. Allora, lo stesso titolo rendeva il 4,23%. Considerando che nel frattempo il bond in lire turche sia passato da un rendimento del 10,17% a uno dell’11,86%, notiamo che lo spread sia crollato da 594 a 481 punti base. Come dire che il mercato vede relativamente meno rischiosi i titoli in valuta domestica di quelli in valuta estera.
Tuttavia, il decennale racconta altro. Il bond con scadenza gennaio 2030 e cedola 11,875% (ISIN: US900123AL40) rende oggi il 7,30%, molto più del 4,65% di inizio febbraio, rispetto a quando risulta aver perso circa il 15,6%. In netta crescita anche i rendimenti sovrani in lire, però, passati dal 10,14% al 13,10%. Dunque, in questo caso lo spread si è allargato da 549 a 580 punti base, segnalando che il mercato pretende un premio al rischio maggiore per i bond in valuta locale, percepiti un po’ più rischiosi rispetto a quelli emessi in valuta americana. Eppure, a voler essere onesti, Ankara non ha un problema di debito pubblico in sé, poco sopra il 30% del pil, quanto di eccessive esposizioni in valute straniere.
Il premio al rischio dovrebbe stringere, come nel caso della scadenza quinquennale, anziché allargarsi, essendo divenuto relativamente più rischioso proprio il debito in dollari. Se ciò non sta accadendo per le emissioni a più lunga durata sarà perché il mercato sconta criticità perlopiù a breve termine, legate alla difficile congiuntura internazionale di questa fase. Ma sfugge ai più come la bilancia commerciale turca sia cronicamente passiva, segno di scarsa competitività delle imprese locali, per cui le importazioni sono possibili solo grazie agli afflussi dei capitali, anch’essi dai saldi negativi.
La trinità impossibile della Turchia segnale ribassista per i bond in valuta estera