Pochi giorni fa, gli azionisti di Louis Vuitton Moet Hennessy (Lvmh) hanno approvato l’acquisizione di Tiffany, annunciata alla fine dello scorso anno per un controvalore di 14,5 miliardi di euro (16 miliardi di dollari). E immediata è arrivata l’emissione di un nuovo bond, i cui proventi saranno destinati proprio a finanziare l’operazione. Le obbligazioni sono state emesse per un totale di circa 9,3 miliardi, di cui 7,5 miliardi in euro e 1,55 miliardi in sterline. Le tranche collocate sul mercato hanno scadenza da 2 a 11 anni.
Il secondo diamante più grande al mondo va a Vuitton, aspettando il Milan?
Queste cifre così infime sono state rese possibili dall’altissima domanda attirata dall’emissione: 20 miliardi di euro per le tranche in euro e 3,65 miliardi di sterline per quelle denominate nella valuta britannica. Del resto, l’obbligazione a 3 anni già circolante e con scadenza 28 febbraio 2023, cedola 0,125% (ISIN: FR0013405347), sul mercato secondario prezza in area 101 e rende così poco più del -0,20%. E nel settembre scorso, la stessa viaggiava intorno al -0,35%.
Dunque, Louis Vuitton sarà in grado di comprarsi Tiffany, attingendo perlopiù al mercato dei capitali ultra-liquido di queste settimane, potendo finanziare l’operazione a costi quasi nulli. Nulla di strano, se non fosse che quasi certamente la BCE avrà partecipato al collocamento. A differenza di quanto accade per i titoli di stato, Francoforte acquista obbligazioni societarie anche al mercato primario, cioè all’atto della loro emissione. Di solito, i titoli che posseggono i requisiti per essere acquistati (rating almeno “investment grade”) vengono acquistati dall’istituto per circa il 20% del valore complessivo.
Interventismo BCE “sospetto”?
Nei mesi scorsi, già risultava che nel portafoglio della BCE vi fossero diversi bond di Lvmh. A questo punto, dobbiamo immaginare che la domanda già di per sé sostenuta sia stata trainata ulteriormente proprio dall’intervento di Francoforte, con la conseguenza che un’azienda europea sia stata messa ancora di più nelle condizioni di comprarsi un asset americano. Il confine tra politica monetaria e industriale qui si fa concretamente molto sottile, per quanto non possiamo dubitare che l’istituto avrebbe sostenuto qualsiasi altra emissione effettuata sulla base delle medesime condizioni.
Non stiamo affermando che la BCE, guidato da qualche mese dalla francese Christine Lagarde, stia in un qualche modo favorendo alcune imprese al posto di altre o si stia prefiggendo obiettivi di natura industriale che esulino dalla sfera più prettamente monetaria, ma il rischio che all’infuori dell’Eurozona vi sia questa percezione esiste. Immaginate cosa penserebbero alla Casa Bianca, se vedessero che un numero crescente di aziende europee scalino realtà americane, finanziandosi con emissioni di obbligazioni acquistate e sostenute dalla nostra banca centrale. Non sarebbe questione di “America First”, bensì di commistione apparente tra sfere che dovrebbero restare separate.
Qualche giorno fa, vi avevamo fornito altri dati sugli acquisti di assets condotti dalla BCE a gennaio, dai quali è emerso che ben il 40% dell’importo è stato destinato al comparto corporate, una percentuale più che doppia rispetto a quelle complessive del primo round di “quantitative easing”. E Francia e Italia sono risultate nette vincitrici sul fronte delle obbligazioni di stato, con oltre il 97% degli acquisti loro riservati. In sostanza, parrebbe di capire che Lagarde stia assegnando maggiore importanza al corporate di quanto non abbia fatto il suo predecessore Mario Draghi e, dal punto di vista geografico, starebbe privilegiando il panorama italo-francese, sebbene sia davvero troppo presto per dedurne simili considerazioni, anche alla luce dei criteri fissati in fase di varo del QE nel 2015 e che necessariamente alla lunga dovranno essere osservati.
Così la BCE sta aiutando Francia e Italia, colpendo Germania e suoi alleati