Domani, il sesto board dell’anno della BCE non dovrebbe esitare alcuna decisione sulla politica monetaria nell’Eurozona. Molto probabile, infatti, che il governatore Mario Draghi usi parole più chiare sui termini della cessazione del “quantitative easing” alla successiva riunione di fine ottobre, quando dovrà preparare definitivamente i mercati all’una o l’altra direzione. Scontato il mantenimento dei tassi ai livelli attuali, ossia ai minimi storici. La fine degli stimoli, che verranno dimezzati già da ottobre e fino a dicembre a 15 miliardi di euro al mese, non riguarderà i soli titoli di stato, bensì pure i corporate bond.
Obbligazioni europee senza bussola, spazzatura spacciata per titoli di lusso
Inoltre, si assiste a un ridimensionamento delle distanze tra le due classi di bond dal mese di luglio, quando lo spread aveva raggiunto i 280 bp. In sostanza, nelle ultime settimane di estate i bond “spazzatura” hanno sovraperformato quelli di qualità medio-alta. Quale possibile spiegazione per questa apparente, pur ancora debole, inversione di tendenza rispetto agli 8-9 mesi precedenti? Negli ultimi 3 mesi, i mercati sono stati preparati da Draghi alla fine imminente degli stimoli e al primo rialzo dei tassi, che verosimilmente sarà deciso nella seconda metà dell’anno prossimo, data la promessa di non aumentare il costo del denaro “fino all’estate 2019”. L’avvio del “tapering” sta coincidendo, com’è ovvio, con una ripresa dell’inflazione attorno al target della BCE per la prima volta da 5 anni e mezzo.
Saranno premiati i titoli “spazzatura”?
In teoria, così come il varo del QE avrebbe contribuito in misura preponderante a dimezzare lo spread tra “investment grade” e “junk”, abbassando al contempo i livelli assoluti dei rendimenti di entrambe le categorie, adesso dovrebbe verificarsi il processo opposto, nel senso che la lievitazione dei tassi sul mercato europeo farebbe venire meno l’esigenza avvertita dagli investitori negli ultimi anni di andare a caccia di rendimento, anche al costo di assumersi rischi maggiori. Insomma, passeremmo dal “hunt for yield” al “fly to quality”. Ma siamo sicuri che sarà così? In fondo, l’inflazione al 2% nell’Eurozona rende ormai un investimento in perdita quello realizzato acquistando titoli a rating elevato fino alle scadenze medio-lunghe, mentre così non è per i titoli meno solidi. Prendiamo il bond Eni 2026 con cedola 1,5%: rendimento lordo all’1,5% e netto di poco superiore all’1%. Con un’inflazione media annua del 2%, da qui alla scadenza subiremmo una perdita cumulata lorda del 4% e netta il doppio. Chiaramente, trattasi di un’obbligazione ad alta qualità. Perché mai un investitore dovrebbe accontentarsi di perdere denaro, quando potrebbe guadagnarne puntando su titoli formalmente poco affidabili, ma che con un’economia in ripresa potrebbero sorprendere in positivo? A titolo di confronto e restando sempre in Italia (stesso rischio sovrano), il bond Telecom 2027 e cedola 2,375% offre un rendimento lordo del 3,1%. Se non temiamo credibilmente nel crac della compagnia, dovremmo optare per le sue emissioni, anziché per quelle più spilorce degli altri colossi industriali.
La situazione analoga si ha sul mercato dei bond sovrani. La curva media delle scadenze nell’area ci dice che per ottenere un rendimento almeno pari all’inflazione bisognerebbe acquistare titoli dai 25 anni in su, mentre fino agli 8,5 anni stiamo ancora sotto l’1% e fino ai 2 anni e mezzo sottozero.
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