Alla fine del 2023 i debiti di famiglie, imprese e governi nel mondo ammontavano a 313.000 miliardi di dollari, in crescita su base annua di 15.000 miliardi. Circa un decennio prima, stavano a 210.000 miliardi. Il 55% di tale incremento si è registrato a causa di Stati Uniti, Francia e Germania. Lo ha scritto nero su bianco l’Institute for International Finance (Iif) nel suo Global Monitor. Rispetto al PIL globale, l’anno scorso c’è stata una discesa del 2% a poco sotto il 330%. Tuttavia, rileva l’Iif, essa si è avuta tra le economie mature, mentre tra diverse emergenti c’è stata una crescita verso valori record.
Minaccia da tassi e dollaro
Preoccupante la situazione in Cina, dove i debiti nel loro complesso non sono distanti dai livelli che si riscontrano tra le economie più avanzate, anche se ancora stiamo parlando di un’economia mediamente ricca e già in rallentamento. Due le ragioni dell’allarme: l’incertezza sui tempi per il taglio dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve e la forza del dollaro. Entrambi incidono negativamente sulle prospettive degli emittenti di debiti denominati in valuta straniera.
Debiti a rischio con le tensioni internazionali
Quanto all’Europa, governi e società non finanziarie risultano meno indebitate degli anni della pandemia. Ma non c’è motivo di compiacersi, dato che le tensioni geopolitiche rischiano di impattare sui livelli d’inflazione e di tenere alti ancora per un periodo prolungato il costo del denaro. Il riferimento è a quanto stia accadendo in questi mesi, specie nel Medio Oriente. Le notizie che arrivano dal Mar Rosso sono sempre più negative. I ribelli Houthi dallo Yemen promettono una lunga battaglia contro gli Stati Uniti. Da settimane bloccano o rallentano il passaggio delle navi mercantili, incrementando tempi e costi di trasporto per le merci esportate dall’Asia all’Europa e viceversa.
Ci sono almeno altri due grossi fronti caldi sul piano internazionale: il conflitto tra Russia e Ucraina e tra Cina e Taiwan.
Mancano i soldi per una terza guerra mondiale
Stavolta, potrebbe accadere il contrario. Persino gli Stati Uniti, superpotenza per antonomasia, sono alle prese con ristrettezze di bilancio evidenti. Il loro debito pubblico ha sfiorato il 130% del PIL nel 2022 e l’anno scorso dovrebbe essere sceso in area 125%, comunque altissimo e atteso in fortissima ascesa nei prossimi decenni. La Cina, come detto, non se la passa meglio. Scoppiata la bolla immobiliare, l’economia si è inceppata e l’eccesso di debiti del decennio passato per il comparto sta provocando uno shock alle finanze locali.
Nessuno sembra realmente in grado di fare la guerra. E non solo perché non ci sarebbero quattrini a sufficienza, ma anche perché essa scatenerebbe conseguenze drammatiche per le economie coinvolte e non. L’inflazione esploderebbe nuovamente, i tassi di interesse resterebbero elevati e le emissioni di debiti costerebbero un occhio della testa a governi, banche e aziende. Tra l’altro, un conflitto mondiale verosimilmente restringerebbe i mercati di sbocco di ciascuna economia, privando moltissime realtà ad oggi interconnesse di fatturato, cioè entrate con cui pagare i debiti.
L’eccesso di debiti disincentiva alla guerra
Una terza guerra mondiale si tradurrebbe, quindi, in minori ricavi e maggiori costi. E tutto ciò porterebbe all’insostenibilità dei debiti.
Mondo odierno interconnesso
Il mondo non è più quello chiuso dei primi due conflitti mondiali. Un battito d’ali in Asia è capace di provocare un uragano in Occidente. Se vogliamo, è il segno dell’intrinseca debolezza di un mondo globalizzato, dove ognuno dipende da tutti gli altri. Ma il bicchiere mezzo pieno sta nel fatto che, ricorrere alle armi per risolvere un conflitto, diventa molto meno probabile, in quanto più rischioso e costoso. Tralasciando il deterrente nucleare, nessuno ha convenienza ad uccidere i finanziatori dei propri debiti e i mercati che rendono possibile il loro pagamento. Chi scatenasse una guerra, oggi dovrebbe prendere in considerazione uno scenario in cui smette di indebitarsi, spende nei limiti delle proprie disponibilità, magari sotto-investe e rinuncia non solo ad aumentare la propria ricchezza, ma anche a parte di quella che era riuscito a conquistarsi finora. Un’ipotesi del terzo tipo. O perlomeno si spera.