C’è un’argomentazione abbastanza inquietante che i nostri politici, di destra e di sinistra, sono soliti portare al tavolo delle trattative con Bruxelles quando al centro del dibattito c’è la nostra immensa montagna di debito pubblico, ossia che l’Italia detenga anche una ricchezza privata quantitativamente rilevante (5,5 volte il pil) come in altre poche economie al mondo. Perché troviamo inquietante tale affermazione? Perché sarebbe come se il nostro governo di turno stesse rassicurando i partner europei e i commissari con l’implicita evidenza che, nel caso di bisogno, parte di questa ricchezza accumulata da famiglie e imprese nel corso dei decenni verrebbe intaccata per abbattere il debito sovrano.
Perché il debito pubblico ci costerebbe di più con la lira
Invece, ha molto più senso concentrarsi su un altro indicatore per capire quanto effettivamente sarebbe sostenibile il nostro debito pubblico. Parliamo del debito privato, ovvero quello di imprese e famiglie. L’Italia ne possiede uno pari a meno del 173% (dati 2016). Ci sono almeno due buone notizie in questa cifra: risulta tra le percentuali più basse nel mondo avanzato ed è in calo dal picco del 186,6%, toccato nel 2011, contrariamente al debito pubblico, che si aggira ancora non lontano dall’apice di quasi il 133% del 2016.
In confronto, la Francia possiede un indebitamento privato al 234% del pil, l’Olanda del 251%, gli USA del 203%, il Regno Unito del 217%, la Spagna del 200%, mentre la Germania di appena il 148%. La stessa Grecia, a fronte di una situazione pubblica drammatica, vanta debiti privati per appena il 132% del pil. Ora, in sé i livelli nulla ci raccontano sulle ragioni che ne sono alla base.
E l’Italia non se la passa peggio, anzi
Fatta questa premessa, quando il debito pubblico è elevato e quello privato pure (il caso tipico dell’America), il caso diventa preoccupante, perché segnala che famiglie e imprese sarebbero a rischio stress nel caso di un aumento del costo del denaro. Quando i tassi aumentano, le rate dei debiti (mutui) accesi a tasso variabile diventano più pesanti, mentre quelli accesi a tasso fisso non risultano colpiti e, tuttavia, man mano che ne vengono accesi di nuovi, anche solo in sostituzione di quelli vecchi già onorati, inizieranno a incidere anch’essi di più sui bilanci del mondo delle imprese e delle famiglie, in generale. Al monte-redditi saranno sottratte maggiori risorse per essere trasferite ai creditori. In una siffatta situazione, per lo stato diverrebbe più difficile caricare sui contribuenti (sempre famiglie e imprese) il maggiore costo di rifinanziamento del debito pubblico, fosse anche solo attraverso il taglio della spesa pubblica, visto che esso implica la generazione di minori redditi, aggravando lo stress patito nel settore privato.
Debito pubblico, la proposta sovranista anti-spread di Siri lo farebbe esplodere
L’Italia, tra pubblico e privato, mostra di avere un debito totale intorno al 300% del pil. Per ogni 100 punti base di crescita dei tassi d’interesse, servirebbe un aumento nominale del pil del 3% per mantenere il rapporto invariato, poco meno del Regno Unito e in linea con la Spagna. In Francia e negli USA, ad esempio, ne servirebbe uno del 3,4%, in Germania di appena il 2,1%.
Anzi, francesi e americani se la passerebbero tendenzialmente peggio. In particolare, i primi hanno visto esplodere il loro indebitamento privato dal 205% del pil nel 2008, i secondi lo hanno visto scendere, al contrario, di una decina di punti, i tedeschi di quasi una quindicina. Come dire, che mentre le condizioni finanziarie private degli italiani con la crisi sono rimaste praticamente identiche nel complesso, quelle francesi si sono deteriorate, mentre quelle britanniche, USA e spagnole sono nettamente migliorate, pur partendo da livelli allarmanti, tanto da risultare ancora decisamente superiori alle esposizioni delle nostre famiglie e imprese. E allora, anziché fossilizzarci sull’unico, pur preoccupante, dato sul debito pubblico, allarghiamo lo sguardo al complesso dei debiti italiani e capiremo forse di non essere messi peggio di altri stati, dove l’economia reale avrebbe a disposizione minori margini per sostenere un’eventuale stretta fiscale.