Spread BTp-Bund a 10 anni in direzione 330 punti base. I rendimenti decennali dei nostri titoli di stato viaggiano sopra il 3,60% sulla sempre più probabile apertura della procedura d’infrazione della Commissione europea contro l’Italia per “deficit eccessivo”. Eppure, il disavanzo fissato dal governo Conte per il 2019 è del 2,4% del pil, ben al di sotto del limite massimo del 3% consentito dal Patto di stabilità. Se domani sarà questa la risposta di Bruxelles, come da attese, saremmo a una situazione inedita per l’Eurozona: uno stato membro rischia di vedersi comminata una sanzione fino allo 0,2% del pil, anche se probabilmente tra diversi mesi o qualche anno, senza avere nemmeno infranto il tetto del deficit, pur essendo vero che non abbia adempiuto alle previsioni del Fiscal Compact, ma in questo caso in ottima compagnia, tra cui di stati come Francia e Spagna.
Sin dalla presentazione della manovra di bilancio da parte di Roma a Bruxelles, è stato evidente l’atteggiamento pregiudizialmente ostile dei commissari, i quali non possono accettare che venga loro mossa alcuna sfida da parte di un governo euro-scettico e in più alla guida di uno stato, che da decenni viene considerato un subordinato all’asse franco-tedesco. Nell’ingaggiare la “guerra” contro i commissari, Paolo Savona, ministro delle Politiche europee e vero ispiratore delle mosse del governo giallo-verde nel confronto muscolare con la UE, aveva messo interamente in conto le conseguenze, tanto da avere avvertito che sarebbe stata molto dura.
L’Italia, rappresentata all’Eurogruppo di ieri dal ministro dell’Economia, Giovanni Tria, non ha indietreggiato sul deficit al 2,4%. Se avesse voluto, avrebbe potuto salvare capre e cavoli ed evitare l’acuirsi delle tensioni finanziarie. Come? Abbassando il disavanzo fiscale di qualche decimale e spostando da reddito di cittadinanza e pensioni a investimenti qualche miliardo di risorse. A Bruxelles interesserebbe, infatti, solo umiliare e frustrare le mosse di Roma.
La manovra del governo è targata Savona, non Tria
Il piano B di Savona è in atto?
Sinora, la stampa italiana crede che i due azionisti della maggioranza vogliano semplicemente ingaggiare uno scontro duro con i commissari a fini elettoralistici e su temi molto popolari, nell’ottica delle elezioni europee del maggio prossimo. I sondaggi, per quanto evidenzino un arretramento dei grillini a tutto vantaggio dei leghisti, ad oggi darebbero loro ragione, anche perché l’opposizione nel Paese non esiste, tra un PD moribondo e tutto concentrato nelle sue infinite correnti a spartirsi i resti e una Forza Italia in coma vegetativo e non del tutto libera di sferrare colpi contro il governo, anche se volesse, essendo alleata della Lega negli enti locali, dipendendo da Matteo Salvini per la sua sopravvivenza nei vari territori.
E se, invece, il famoso piano B agitato da Savona prima della nascita del governo giallo-verde e apparentemente riposto nel cassetto fosse diventato il piano A sotto i nostri occhi? In altre parole, non è per caso che i mercati finanziari stiano avendo ragione a scontare una ancor improbabile, ma sempre meno remota uscita dell’Italia dall’euro? Davvero crediamo che gli investitori di tutto il mondo si stiano agitando così tanto per il 2,4% di deficit, quando nel 2017 il governo europeista di Paolo Gentiloni chiuse il bilancio pubblico con un disavanzo al 2,3%? A preoccupare è quasi con ogni evidenza non lo stato dei conti pubblici italiani in sé, quanto quello che si celerebbe dietro alla battaglia sull’innalzamento del target sul deficit, ossia il tentativo forse ormai palese di Roma di creare il clima ideale per rendere il ritorno alla lira una scelta non più detestabile da larga parte dell’elettorato, compreso quello euro-scettico che ha votato il 4 marzo scorso per Lega e 5 Stelle.
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Giovani italiani i più euro-scettici
I sondaggi dell’Eurobarometro segnalano che gli italiani sarebbero divenuti il popolo meno europeista della UE. Se si votasse oggi per restare nelle istituzioni comunitarie – badate bene, non solo nell’euro – appena il 44% si esprimerebbe certamente a favore, il 22% in meno rispetto alla media continentale. E un altro sondaggio, realizzato da Ixè per Coldiretti, ha trovato che il 60% degli italiani ritiene che l’Italia venga maltrattata dalla UE. Interessante le percentuali di risposte sul sostegno a quest’ultima nel caso di referendum e suddivise per fasce di età: tra gli over 45, voterebbero per restare il 68%; sotto i 45 anni, ben il 51% voterebbe per uscirsene, il doppio del 26% tra i primi. In pratica, i giovani non credono più alla UE e questa sarebbe la molla su cui farebbero leva i due partiti al governo in una prospettiva di lungo periodo.
Bisognerebbe chiedersi come mai, contrariamente a quanto avvenga nel resto d’Europa, compreso il Regno Unito in occasione del referendum sulla Brexit, i giovani italiani siano i meno europeisti. La risposta la danno i numeri disastrosi dell’economia: tra i 15 e i 24 anni, uno su tre è disoccupato e solo poco più di uno su dieci lavora, quando in Germania si sfiora l’uno su due. E la proverbiale ricchezza privata delle famiglie, in relazione al pil praticamente doppia che in Germania, riguarda i loro genitori e nonni, visto che per un under 40 è divenuto quasi impossibile accantonare parte del reddito per risparmiare in favore del futuro.
Se davvero il piano B di Savona fosse nei fatti quello A, dovremmo attenderci inerzia da parte della Casa Bianca. Al governo americano interessa fare esplodere la UE e ci riuscirebbe spingendo l’Italia allo scontro massimo con Bruxelles, così da renderne più probabile l’uscita dall’euro. Certo, l’America non avrebbe in concreto come aiutarci con lo spread, se non con provvedimenti-tampone tutti da verificare all’atto pratico. Anche se potesse, però, il presidente Donald Trump, acerrimo nemico della Germania di Frau Merkel, avrebbe tutta la convenienza a non sostenerci fino a quando resteremo nell’unione monetaria, semmai fornendoci l’aiuto necessario una volta tornati alla lira. L’Italia in questo scacchiere sarebbe una delle pedine dei tentativi in corso di ricomposizione sul fronte geopolitico. Il Regno Unito è l’altra grande economia già in via d’uscita dalla UE, mentre il Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) completerebbe il quadro. Resterebbe l’Europa a trazione franco-tedesca, a cui continuerebbero ad essere legati gli stati satelliti di piccole dimensioni con l’unica eccezione della Spagna, che prima o poi dovrà decidere se accettare un destino di sudditanza nei confronti di Berlino e Parigi o se pure sganciarsi gradualmente.
Davvero Trump e Putin aiuteranno l’Italia comprandosi il nostro debito pubblico?
Euro a rischio come mai prima d’ora
Germania e Francia sono consapevoli che a rischio vi sia il loro castello di carta costruito in decenni di monopolizzazione della politica continentale e culminato con la nascita dell’euro. Per questo, faranno di tutto per non consentirci di fare di testa nostra sul deficit, non perché temano realmente l’esplosione del debito pubblico italiano, quanto per l’impossibilità di accettare che un alleato di seconda fascia decida di alzare la testa e di confrontarsi alla pari con loro. Non è questo il ruolo che spetta all’Italia dentro questa UE. L’euro non sarà mai una costruzione monetaria completa, ossia con la previsione di meccanismi di trasferimento della ricchezza verso le economie più deboli o in difficoltà, perché non è nato con lo scopo di far convergere gli stati membri, semmai questo è stato il racconto propinato alle opinioni pubbliche del Sud Europa come specchietto per le allodole. La moneta unica nasce per impedire che le continue svalutazioni delle monete come la lira colpissero l’economia tedesca dal marco forte, rendendola meno competitiva, specie dopo la riunificazione, quando la ex Germania Ovest dovette accollarsi i costi della ricostruzione della vecchia DDR.
Forse, stiamo sovrastimando le capacità di comprensione della realtà di questo governo, anche se bisogna ammettere che non sia nato dall’improvvisazione, come siamo portati a credere, ma dalla pluriennale annusata reciproca tra le due formazioni che lo reggono. Basti guardare agli elettori per fascia di età e censo per capire, ad esempio, che l’unico partito schierato mani e piedi con l’Europa (a parte l’inesistente formazione di Emma Bonino), il PD, conservi nicchie di consenso solo tra pensionati e famiglie agiate, ovvero coloro che da un’uscita dall’euro avrebbero tanto da perdere, tra risparmi bruciati, nonché stipendi pubblici e pensioni defalcati nel loro potere d’acquisto. I giovani, che alle ultime politiche hanno votato in massa per i 5 Stelle, sono i dimenticati della “vecchia” politica e non avendo nulla da perdere, potrebbero sostenere elettoralmente fino alle conseguenze estreme il governo giallo-verde, anche perché il nord ricco e produttivo di cultura leghista non ci sta ad essere bistrattato da tedeschi e francesi come un “terrone” d’Europa, dovendo peraltro continuare a mantenere un sud sempre più economicamente al collasso e dipendente. Ne vedremo delle belle. L’euro non è mai stato così a rischio come adesso e, in assenza di sostegno popolare e politico, non basterà più un nuovo “whatever it takes” della BCE per salvarlo, sempre che a Francoforte abbiano ancora voglia di impedire quello che ogni giorno di più appare meno evitabile.
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