Il sistema contributivo è l’ostacolo più arduo a cui sono esposti i lavoratori che devono andare in pensione con Opzione Donna o con la quota 103
Infatti, sono le due misure che prevedono il calcolo contributivo della prestazione. Si tratta di due misure differenti, con requisiti diversi, e quindi le penalizzazioni dell’assegno dovute al ricalcolo contributivo sono variabili: a volte più pesanti, a volte meno.
Molti lettori in procinto di sfruttare i canali di uscita agevolati ma penalizzati ci chiedono come capire se è conveniente uscire o meno.
“Buongiorno, sono una lavoratrice che ha da tempo maturato il diritto di Opzione Donna in quanto lavoratrice autonoma di 63 anni, compiuti nel 2024, con 40 anni di contributi che completerò alla fine del corrente anno. Quindi, ho abbondantemente superato i 59 anni di età e i 35 anni di contributi richiesti nel 2022 per Opzione Donna. Voglio cedere la mia attività a mia figlia e mi chiedevo se secondo voi mi conviene andare in pensione con Opzione Donna. Grazie.”
“Salve, sono un lavoratore di 63 anni che ha appena completato i suoi 41 anni di contributi. Ho verificato di non avere diritto alla quota 41 poiché non rispetto il vincolo del lavoro precoce. Credo però di avere diritto alla quota 103. Mi aiutate a capire se mi conviene lasciare il lavoro con questa misura?”
Ecco a chi conviene prendere la pensione tra i 59 e i 63 anni anche con il sistema contributivo
Domande di questo tipo sono molto diffuse oggi perché alcune misure di pensionamento nascondono delle insidie per i lavoratori, soprattutto dal punto di vista dei calcoli della pensione. Ci sono misure che prevedono penalizzazioni dell’assegno a carico dei lavoratori, come un sacrificio da accettare per andare in pensione diversi anni prima rispetto alle regole ordinarie.
Questo meccanismo si applica a Opzione Donna e alla quota 103. Infatti, queste due misure prevedono l’accettazione del calcolo contributivo per poter andare in pensione. Il vantaggio in termini di uscita dal mondo del lavoro è evidente con entrambe le misure. E al raggiungimento dei requisiti previsti, gli interessati possono sfruttare l’uscita.
Tuttavia, le penalizzazioni sull’assegno variano da caso a caso e ci sono lavoratori che escono avvantaggiati dal contributivo.
Ecco i veri penalizzati dalle pensioni che l’INPS liquida con il calcolo contributivo
Il calcolo contributivo può essere un vantaggio, non uno svantaggio, per chi negli ultimi anni di carriera ha avuto stipendi più bassi rispetto agli anni precedenti. Infatti, il calcolo retributivo, che per la maggioranza dei contribuenti rappresenta la soluzione migliore per ottenere una pensione più elevata, non è ottimale per chi ha subito un calo retributivo.
Il sistema retributivo, che era la base del calcolo della pensione fino alla riforma Dini del 1996, considerava gli ultimi 5 o 10 anni di carriera retributiva di un lavoratore, provocando a volte un aumento indiscriminato e ingiustificato delle retribuzioni a fine carriera.
Molti, di comune accordo con i datori di lavoro o sfruttando normative particolari in alcuni settori, riuscivano a godere di stipendi molto elevati sul finire della carriera, ottenendo pensioni ben più alte e sproporzionate rispetto ai contributi versati. Questo generava una delle critiche più frequenti a questo sistema, in cui l’INPS finiva per pagare molto di più rispetto ai contributi effettivamente versati dal contribuente.
I contributi versati, le retribuzioni, i calcoli: tutto ciò che determina il giusto importo della pensione
Alla luce di queste anomalie, fu introdotto il calcolo contributivo, che non guarda alle retribuzioni, sebbene queste restino importanti. Il sistema contributivo calcola le pensioni sull’ammontare dei contributi versati, risultando quindi molto equo.
Chi ha retribuzioni più basse a fine carriera perde il vantaggio che il sistema retributivo darebbe, rendendo meno doloroso accettare un ricalcolo contributivo. I veri penalizzati dal cambio di sistema sono coloro che, per lunghezza di carriera nel retributivo, avrebbero avuto diritto a un calcolo più vantaggioso per gran parte della loro pensione.
I lavoratori con oltre 18 anni di contributi fino al 1995 perdono il vantaggio del calcolo retributivo fino al 2012. Chi ha una carriera retributiva inferiore ai 18 anni, invece, perde il vantaggio del calcolo retributivo solo fino al 1995.
Chi sono i penalizzati? Ecco che calcolo fare e perché cambia molto da caso a caso
Per lunghezza di carriera necessaria per Opzione Donna e per quota 103, cambiano anche le eventuali penalizzazioni subite. È molto più probabile che un soggetto che rientra in quota 103 abbia superato i 18 anni di versamenti al 31 dicembre 1995.
Per quota 103 servono almeno 62 anni di età e almeno 41 anni di contributi. Chi, pur avendo compiuto 62 anni lo scorso anno, completa i 41 anni di contributi nel 2024, deve accettare il ricalcolo contributivo. Che non tocca chi i 41 anni di versamenti li ha completati nel 2023.
Per Opzione Donna, invece, bastano 35 anni di carriera, rendendo meno probabile il completamento di 18 anni di contributi prima del 1996. Nel calcolo della convenienza a sfruttare le due misure, bisogna considerare anche il coefficiente di trasformazione, meno favorevole quando l’età di uscita è più bassa. Chi esce con 62 anni di età e 41 anni di contributi con la quota 103 non prenderà mai una pensione pari a chi, con i 41 anni di contributi, esce a 63 anni o addirittura a 67 anni.
Lo stesso accade alle donne che, con Opzione Donna, possono uscire già a 59 anni di età. Ma con un coefficiente che trasforma il montante contributivo in pensione molto più penalizzante rispetto a chi esce a un’età più avanzata.
Esempi pratici: tutti i pro e i contro di una uscita anticipata
Per comprendere se c’è vantaggio o meno ad andare in pensione prima con il sistema contributivo, bisogna valutare tutto.
Poi bisogna considerare la perdita di pensione, poiché subire un taglio di 500 euro al mese per il resto della vita lascia sicuramente il segno. Un esempio pratico è utile per capire cosa dovrebbe calcolare il lavoratore.
Per facilità di calcolo, prendiamo una pensione netta di 1.000 euro al mese. Il lavoratore che accetta di prendere questo importo contributivo anziché 1.500 euro rimandando l’uscita recupera 13.000 euro all’anno per 5 anni. Sono ben 65.000 euro. Dai 67 anni, i 500 euro in meno percepiti come taglio di assegno iniziano a farsi sentire.
Se la vita media di un contribuente si attesta a 82 anni, significa che dai 67 agli 82 anni, quindi per 16 anni, i 500 euro al mese persi portano a un ammanco totale di 104.000 euro.