L’inflazione nell’Eurozona è salita all’8,6% a giugno, il tasso più alto nella pur breve storia dell’area. Questione ormai di giorni e la BCE varerà il primo rialzo dei tassi dal 2011. Negli USA, la Federal Reserve si è portata avanti, avendo fissato i tassi a giugno all’1,75%. Praticamente ovunque, con la sola rilevante eccezione del Giappone, le banche centrali hanno o aumentato già il costo del denaro anche più volte o almeno annunciato piani per farlo. Agli occhi di molti di noi, questa strategia può apparire inutilmente dolorosa.
Rialzo dei tassi contro l’inflazione
Per l’esattezza, per quale motivo una banca centrale deve aumentare il costo del denaro al fine di fermare l’inflazione? Il discorso è complesso. Un economista monetarista alla Milton Friedman risponderebbe che l’inflazione sia sempre un fenomeno monetario. Il solo modo di attecchire è che circoli più moneta. Se così non fosse, all’aumentare dei prezzi di un dato bene o servizio, dovrebbero diminuire i prezzi degli altri beni e servizi. A parità di moneta in circolazione, infatti, se ne utilizzo di più per pagare le bollette, me ne restano di meno per alimentari, abbigliamento, parrucchiere, cinema, ecc.
Nella pratica, il rialzo dei tassi significa che la banca centrale presta denaro alle banche commerciali a costi più alti. Inevitabilmente, queste trasferiscono l’aggravio sui clienti. A loro volta, questi chiederanno minori prestiti. Circolerà meno denaro, il quale diventerà un bene più scarso e, di conseguenza, più costoso. Le stesse banche dovranno aumentare anche i tassi praticati sui conti correnti e depositi per evitare che i risparmiatori portino il denaro altrove. Dunque, quale sarà l’effetto del rialzo dei tassi? Minori investimenti delle imprese e acquisti di beni durevoli delle famiglie (mutui, veicoli, elettrodomestici, ecc.).
In altre parole, il rialzo dei tassi riduce la domanda aggregata, vale a dire consumi e investimenti. Possibili contraccolpi negativi anche sulla spesa pubblica, in quanto i governi troveranno più costoso indebitarsi. E l’impatto sull’inflazione? Essendovi minore richiesta di beni e servizi, la pressione sui prezzi si riduce e gradualmente questi si stabilizzano o finiscono per abbassarsi.
Dalla disinflazione alla recessione
Tuttavia, come avete potuto comprendere, combattere l’inflazione implica il rischio di portare l’economia in recessione colpendone la domanda. Se anche l’offerta si contrae, il PIL e l’occupazione ripiegano. In realtà, ciò può avvenire anche per effetto di aspettative d’inflazione che non si adeguino prontamente alle azioni della banca centrale. Se i lavoratori si convincono che perderanno potere d’acquisto – per ipotesi – per il 5% da qui ad un anno, pretenderanno stipendi adeguati a tale tasso d’inflazione attesa. Se, però, l’inflazione nel periodo risulterà del 2%, magari grazie all’azione della banca centrale, le loro pretese si saranno rivelate costose per le imprese, i cui margini si sono ridotti e che, quindi, avranno nel frattempo anche diminuito i livelli di produzione e occupazione.
Per concludere, il rialzo dei tassi contrasta l’inflazione tanto più efficacemente quanto più veloce ne risulterà colpita la domanda. E il rischio di recessione che esso provoca è inversamente proporzionale alla credibilità della banca centrale. Se essa non riesce a convincere il mercato circa la sua effettiva volontà di abbassare l’inflazione, ci vorranno più tempo per raggiungere l’obiettivo e una recessione dell’economia più dura. Ecco perché le cattive figure di questi mesi della BCE non lasciano tranquilli.