La Lega ci lavora da mesi e adesso starebbero per prendere vita. A breve dovrebbero nascere i Conti individuali di risparmio, noti con l’acronimo Cir. Di cosa si tratta? Nell’idea di Armando Siri, l’economista del Carroccio già fautore della “flat tax”, sarebbero titoli di stato rivolti solo agli italiani e per la cui sottoscrizione verrebbero offerte condizioni di favore. Anzitutto, i loro rendimenti non sarebbero tassati, come accade per BoT e BTp al 12,5%, e in più si potrebbe scaricare l’investimento dalla dichiarazione dei redditi, abbattendo così l’aliquota Irpef del 23% fisso.
La verità scomoda per l’Europa sul debito pubblico italiano, esploso per salvare l’Occidente
Se investissimo la stessa somma sui Cir, sui 360 euro annui eventualmente spuntati come rendimento sul decennale, avremmo zero imposte da pagare e, anzi, un risparmio di imposta del 23% fisso sull’investimento, cioè di 230 euro. Niente commissioni bancarie e niente imposte di bollo, almeno così sembra a sentire le proposte in auge in questi giorni dalle parti del governo.
I limiti dei Cir
Esistono diversi limiti a questa proposta. La prima riguarda la fattibilità “tecnica”. Se alle banche non dai la possibilità di ricavarci qualcosa, non puoi aspettarti che dirottino gli investimenti dei clienti dai bond tradizionali ai Cir. E senza le banche, difficile che un popolo anziano e poco avvezzo alla finanza si colleghi in massa da internet per acquistare online le emissioni dei titoli. Inoltre, bisogna capire se questi strumenti siano negoziabili sul mercato secondario o meno. Se no, non potrebbero che avere durata corta, visto che in pochi verosimilmente investirebbero in un prodotto non liquidabile prima della scadenza. Se sì, è evidente che potrebbero essere ceduti solo ad altri soggetti residenti, cosa che ne limiterebbe gli scambi e renderebbe persino difficoltosa la tracciabilità dei nuovi possessori. Scambi rarefatti, però, non depongono in favore né della stabilità delle quotazioni, né della pronta liquidabilità dell’asset.
Per evitare il muro contro muro con le banche italiane, le quali posseggono sui 365 miliardi di euro in BTp, il governo starebbe pensando di limitare le emissioni di Cir a un totale annuo di 15 miliardi di euro. Inoltre, a ciascun risparmiatore verrebbe consentito di acquistarne solo 3.000 euro all’anno, in modo da porre un limite anche all’onere fiscale sostenuto dallo stato per l’iniziativa.
Resta il fatto che, se i Cir vedranno la luce, andranno presi in considerazione, anche se dovremmo prima verificare le reali condizioni alle quali verranno emessi. Critico è, invece, il discorso sulla “nazionalizzazione” del debito pubblico, visto che un debito da 2.300 miliardi rimane gigantesco e pauroso anche se a detenerlo per il 100% fossero solo soggetti italiani. Inoltre, come vi abbiamo spiegato in altri articoli, ciò accresce i rischi a carico dei detentori, visto che il non dovere dare conto alla finanza straniera potrebbe spingere lo stato italiano sia a perseguire politiche fiscali lassiste, sia a pensare di poter rinegoziare l’enorme stock per smaltirne i costi. Inoltre, si tenga presente che per ogni euro in più investito da un italiano nei titoli di stato, quale ne sia la loro denominazione, esiste un euro in meno messo a disposizione per l’economia privata. Insomma, lo stato spiazzerebbe il mercato e questa non sarebbe una buona notizia per l’economia nazionale, che per crescere ha bisogno che il peso del primo si riduca e che aumenti quello del secondo.
Perché troppo debito pubblico in mani italiane frena la crescita economica