Il deputato del Movimento 5 Stelle, Azzurra Cancelleri, ha depositato una proposta di legge in Commissione Finanze della Camera sulla riforma del catasto. Obiettivo: rivedere la tassazione sugli immobili. Il tema è molto spinoso sul piano politico e pone grossi problemi anche su quello tecnico. Se ne parla da molti anni e l’ultimo tentativo concreto di mettere mano alla disciplina fu nel 2015, quando l’allora governo Renzi con una legge delega voleva riformare il sistema impositivo. Non ci riuscì e non è detto che ci si riesca stavolta.
Per prima cosa, dobbiamo sapere che gli immobili ogni anno fruttano allo stato un gettito fiscale di quasi 41 miliardi di euro, 40,6 miliardi nel 2018, pari al 2,3% del PIL. Una fonte di entrata importante e dietro solo alla Francia tra le grandi economie dell’OCSE. Di questi, il grosso arriva dall’IMU, ma ci sono anche la TASI, l’IRPEF sui canoni di locazione, le imposte di successione e donazione o sulle compravendite.
Il patrimonio immobiliare italiano incide per circa il 60% dell’intera ricchezza delle famiglie, valendo qualcosa come attorno ai 6.000 miliardi tra fabbricati e terreni. Non è un caso che nel nostro Paese l’idea di una imposta patrimoniale sia sempre in voga, sebbene gli immobili già siano tartassati più e più volte. Ad ogni modo, la riforma del catasto in sé sarebbe sensata, ma come vedremo risulta di difficile applicazione.
Finora, imposte come l’IMU vengono calcolate sui valori catastali, i quali a loro volta dipendono essenzialmente dal numero dei vani. Si stima che mediamente il valore catastale, moltiplicato per i fattori forniti dal legislatore in fase di tassazione per determinare la base imponibile su cui applicare l’aliquota, sia mediamente 2-2,5 volte più basso del valore di mercato. In altre parole, un immobile che oggi varrebbe circa 150 mila euro mi verrebbe valutato ai fini impositivi sui 70-80 mila.
Immobiliare: altra mazzata sulla casa con riforma catasto
Nuova tassazione sugli immobili patrimoniale mascherata
Le distanze tra valore catastale e valore di mercato tendono ad ampliarsi per quegli immobili situati in aree urbane dalle quotazioni in forte crescita, magari a seguito di fenomeni demografici (immigrazione, crescita della popolazione residente) e socio-economici (riqualificazione urbana, sviluppo locale, vicinanza a sedi aziendali, etc.). Nella proposta di legge, il valore catastale verrebbe determinato non più sugli obsoleti vani, bensì sui metri quadrati, anche se la sola superficie di un immobile in sé non risulta criterio sufficiente per individuare quanto più possibile il valore di mercato dell’immobile.
Ad ogni modo, facile a dirsi, ma bisognerà fare i conti con la necessità per gli uffici dell’Agenzia delle Entrate di dotarsi di tecnici e molto tempo per procedere alla rivalutazione immobile per immobile. Ci vorrebbero anni e ingenti risorse da impiegare allo scopo. Ma il vero punto non è nemmeno questo, quanto l’impatto che una riforma del catasto avrebbe sul gettito fiscale, sui contribuenti e sulle amministrazioni locali. Pur riducendo in proporzione l’aliquota IMU per adeguarla alla rivalutazione media nazionale, molti contribuenti si ritroverebbero a pagare di più e altri di meno, a seconda di come siano variati i valori per ciascun immobile. E questa redistribuzione creerebbe malcontento e finanche possibili nuove disparità. In teoria, chi vive o possiede una seconda casa in centro dovrebbe pagare di più, visto che i valori di mercato qui risultano mediamente superiori, ma molti centri sono disabitati per lo spopolamento e i proprietari spesso si sono ritrovati semplicemente ad ereditare immobili per i quali trovano difficile vendere per sottrarsi a costi indesiderati.
Per non parlare delle variazioni che subirebbero gli enti locali sul fronte del gettito. I comuni più ricchi incasserebbero di più, quelli più poveri di meno, accentuando le differenze tra nord e sud e tra aree più e meno sviluppate all’interno delle stesse regioni e province.
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