Quando leggiamo sui giornali che i capitali si stiano spostando verso questo o quel paese considerato “porto sicuro” per gli investitori, ci siamo mai chiesti come questo nasca? Chi decide o sulla base di quali criteri se un mercato sia da considerarsi un “safe haven”? Il caso che vi proponiamo oggi riguarda la Norvegia, uno stato che non fa parte né dell’Eurozona e né dell’Unione Europea, seppure legato a quest’ultima da un accordo commerciale noto come EFTA (“European Free Trade Association”).
Il petrolio tra i ghiacci li ha resi ricchi e già sono diventati “green”
Molti di voi già starete pensando che, tutto sommato, non ci vuole così tanto ad arricchirsi con il greggio nel sottosuolo o sui fondali marini. Invece, proprio qui ci si sbaglia. Il parallelismo con paesi come il Venezuela ci porta a mettere in serio dubbio che basti avere l’oro tra le mani per stare bene. La Spagna sprecò nel Cinquecento l’opportunità storica di dominare il mondo, nonostante dalle Americhe appena scoperte caricasse sulle navi ingenti quantità di oro estratto senza pagare alcunché alle popolazioni indigene, anzi sfruttandone il lavoro. I lingotti finirono in mano ai nobili e non vennero impiegati a beneficio dell’economia reale. Lì, inizio paradossalmente il suo declino inarrestabile.
Nel 1994, la Norvegia istituì un fondo sovrano alimentato dai proventi petroliferi. Il primo deposito avvenne due anni più tardi. Da allora, la crescita delle sue risorse è stata incessante, grazie al loro impiego sui mercati finanziari. Al termine del 2019, il fondo aveva investiti assets per un controvalore di oltre 1.000 miliardi di dollari, più del doppio del pil norvegese. Soltanto in due anni, nel 2016 e nel 2017, lo stato ha prelevato più soldi di quanti ne fossero stati depositati.
Confronto impietoso con il Venezuela
Prima del crollo delle quotazioni petrolifere, Oslo estraeva quotidianamente 1,7 milioni di barili al giorno, più del doppio del Venezuela, che pure risulta essere lo stato con le maggiori riserve di greggio al mondo, pari a oltre 300 miliardi di barili (quasi 10.000 per abitante), quasi 60 volte superiori a quelle norvegesi (appena 1.000 per abitante). In pratica, mentre nel Mar Artico si estrae qualcosa come 0,3 barili al giorno per abitante, in Venezuela si scende a una media di 0,025 barili, circa 12 volte più bassa. Dunque, la Norvegia ogni anno estrae circa l’11,5% delle riserve disponibili scoperte, il Venezuela meno dello 0,1%.
Come mai questa differenza abissale? La Norvegia ha fatto la formica, il Venezuela la cicala. La prima ha accantonato le risorse necessarie per sostenere gli investimenti, mentre la seconda ha utilizzato i proventi del petrolio per elargizioni pubbliche di massa e per costruire la rete di corruzione più o meno palese ad oggi esistente, finendo per non ritrovarsi in cassa un solo dollaro da impiegare per trivellare nuovi pozzi o per potenziare le estrazioni da quelli già attivi. E non possedendo nemmeno la tecnologia necessaria, fino a qualche anno fa doveva avvalersi della partnership con compagnie straniere, tra cui ENI, ma da qualche tempo ha dovuto farne a meno, non riuscendo a remunerare tali collaborazioni.
La formica norvegese ha costruito un impero finanziario grazie al petrolio, tant’è che il debito pubblico netto ammonta oggi al -175% del pil. Questo, perché a fronte dei 1.000 miliardi di dollari di attività detenute, le passività cumulate dallo stato non arrivavano ai 165 miliardi a fine 2019, qualcosa come il 40,6% del pil.
Le obbligazioni della Norvegia rendono bene con la corona debole?
Così è porto sicuro
Pensate se il Venezuela avesse approfittato del dono ricevuto per accantonare risorse. Sarebbe diventata la Svizzera del Sud America, mentre si dimostra essere a tutti gli effetti un pezzo del quarto mondo, con scene di miserie spaventose e difficoltà di sopravvivenza quotidiane ignote nel resto del continente. Al contrario, la dipendenza dal petrolio per l’economia norvegese è relativamente bassa. La materia prima contribuisce per poco più del 3% del pil alle entrate fiscali, ma si consideri che nel 2019 i conti pubblici di Oslo hanno chiuso in attivo per il 6,4%. Di fatto, le sue entrate incidono per il 7% del totale, mentre in Venezuela le casse statali sono da decenni quasi totalmente dipendenti dalle estrazioni, prosciugandosi velocemente con il ripiegamento delle quotazioni sui mercati.
Non vi stupisca che al debito pubblico norvegese venga assegnata la tripla “A” dalle agenzie di rating internazionali, mentre quello di Caracas versi in default da due anni e mezzo. Non viene difficile percepire come sicuro un paese, in cui i governi hanno saputo sfruttare al meglio una risorsa della natura per accrescere il benessere presente e futuro della popolazione e senza cedere alla tentazione degli sprechi per potenziare il consenso immediato. Oggi, la piccola Norvegia riesce ad attirare capitali dal resto nel mondo nelle fasi di tensioni finanziarie, un po’ come l’altrettanto piccola Svizzera fa dal cuore del continente europeo.
Norvegia meno dipendente dal petrolio, ma la crescita economica sarà più bassa