Il 65-ennesimo anniversario della Revolucion cade in un momento difficilissimo per Cuba, dove le condizioni di vita degli 11 milioni di abitanti peggiorano. L’anno scorso il PIL dovrebbe essere diminuito del 2% e l’inflazione sarebbe salita al 30%, anche se gli economisti indipendenti la stimano su livelli ben maggiori. E poiché il deficit dello stato sarebbe già aumentato al 15% del PIL, per evitare la bancarotta il regime castrista non ha potuto che prendere atto della necessità di tagliare i sussidi sui beni.

E così, il prezzo della benzina è passato da 25 a 132 pesos al litro, un’impennata del 428%. La benzina “premium” è stata portata a 156 pesos.

Benzina alle stelle con stipendi da fame

Il ministro dell’Economia, Alejandro Gil, ha spiegato che il carburante a Cuba era il più economico al mondo e sarebbe stato impossibile tenerlo a quei livelli. In effetti, al tasso di cambio fissato dal Banco Central per acquistare dollari, un litro di benzina risulta salito “solo” a 1,20 dollari, qualcosa come meno di 1,10 euro. Ma il fatto è che sull’isola uno stipendio pubblico mensile si aggira sui 15,60 dollari e in media, includendo il settore privato, non si va oltre i 40 dollari.

In pratica, adesso un pieno di 40 litri con la premium costa circa 23 dollari al tasso di mercato, quasi il 50% in più dello stipendio percepito da un dipendente dello stato e più della metà di uno stipendio medio. E non è salito solo il prezzo della benzina; quello dell’elettricità è stato aumentato del 25%. Tutto costa ogni giorno di più, anche perché le importazioni dall’estero sono ridottissime per effetto dei pochi dollari a disposizione. Non è l’unica preoccupazione dei cubani circa il caro carburante. Il governo ha disposto che alle stazioni di servizio si potrà pagare solo in dollari, un modo per reperire valuta estera.

Flop riforma monetaria

Tuttavia, fanno notare gli abitanti dell’isola, in questo modo una grossa fetta della popolazione rischia di restare tagliata fuori dal mercato.

I dollari sono diffusi tra gli addetti al settore privato, specie connesso al turismo. Gli stipendi pubblici, invece, sono chiaramente pagati in pesos. Il peggio starebbe per accadere. Nel 2021 venne varata una riforma monetaria che nei fatti si tradusse in una maxi-svalutazione del 96% per il cambio. Si passò da 1 pesos per 1 dollaro a 24:1. Nell’estate dell’anno successivo, il Banco Central fissò a 120 pesos per 1 dollaro il tasso di cambio, anche se dopo aver pagato le commissioni all’8% si ottengono 110 pesos.

Sta di fatto che attualmente sul mercato nero 1 dollaro viene scambiato contro 270 pesos. E questo significa che il tasso di cambio ufficiale vale più del doppio rispetto a quello reale. Ed ecco che per cercare di rimpinguare le riserve valutarie, il Banco Central medita un’altra svalutazione. Pur essendo non più rinviabile, con ogni probabilità non basterà a placare la fame di dollari. Anzi, rischia di tradursi in una nuova fase di maxi-aumenti dei prezzi al consumo. Infatti, il “paquetazo”, come viene chiamato con poco affetto il pacchetto delle nuove misure messe in campo dal regime, risulta incompleto. Da un lato cerca di tendere a un’economia meno sussidiata, dall’altro non aumenta il grado di libertà economica nel paese.

L’inganno della Revolucion a Cuba

E’ questo il vero flop della riforma monetaria di tre anni fa. La svalutazione sarebbe servita per rendere l’economia più competitiva e ordinata, ma a patto di liberalizzarla al suo interno. Invece, l’apertura al mercato è rimasta lettera morta. Risultato: i cubani hanno bisogno come prima di importare praticamente di tutto, specie nell’ambito alimentare. Solo che devono spendere di più, a causa della svalutazione. La situazione è così disperata che il presidente Miguel Diaz-Canel ha richiamato in servizio il predecessore Raul Castro, fratello di Fidel, che all’età di 92 anni suonati è costretto a spiegare alla popolazione i benefici nel “paquetazo”.

La Rivolucion invecchia male e l’anno scorso il governo ha consentito finalmente alle banche di aprire conti in dollari ai clienti. Una contraddizione per un regime che si professa “comunista”, che dal 1959 fa retorica quotidiana contro l’imperialismo americano e che si trova costretto ad adottarne in misura crescente la valuta per sfuggire alla carenza diffusa di beni e al rischio di iperinflazione. La prova provata che le promesse del castrismo siano andate tradite. E se L’Avana sperava in un nuovo corso di Washington con l’amministrazione Biden, la realtà è che non sarà la Casa Bianca a togliere le castagne dal fuoco al suo nemico, rimuovendo o allentando il “bloqueo”.

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