L’obiettivo è di arrivare a una decisione entro il 24 febbraio, una data dal forte valore simbolico, visto che ricorre il secondo anniversario dell’occupazione russa dell’Ucraina. Il presidente Joe Biden ha rotto gli indugi e sta accrescendo la pressione sugli alleati europei (Regno Unito, Germania, Francia e Italia), affinché procedano insieme agli Stati Uniti alla confisca dei beni russi. Washington è ormai in campagna elettorale per le elezioni presidenziali e sarà difficile trovare un compromesso con la destra su questo tema, anche perché il provvedimento rischia di assestare un duro colpo al dollaro.

I beni russi in questione sono asset finanziari per circa 300 miliardi di dollari. Fanno ancora ufficialmente parte delle riserve valutarie della Russia, ma poiché si trovavano investiti in Occidente, Stati Uniti ed Europa li “congelarono” subito dopo l’occupazione dell’Ucraina. In pratica, a Mosca è stato impedito l’accesso a questi asset. Un’indisponibilità, che ad oggi non si è tradotta in una perdita della titolarità.

Confisca beni russi per ricostruire l’Ucraina

Secondo Biden, meglio sarebbe utilizzare questa enorme ricchezza per aiutare la ricostruzione dell’Ucraina, il cui costo fu stimato mesi addietro in almeno 700 miliardi di dollari. Quale misura migliore se non quella di far ricadere sull’aggressore il costo di tale ricostruzione? Il punto è che le forme sono sostanza. Non siamo alle usuali spese di riparazione imposte dai vincitori ai vinti al termine di ogni guerra. Anzitutto, perché sul piano militare ancora la guerra non è finita e non esiste un vincitore, ergo neppure uno sconfitto.

Secondariamente, espropriare i beni russi tramite una confisca avrebbe effetti collaterali molto dannosi per l’Occidente. Si sancirebbe definitivamente il principio per cui i governi si arrogano il diritto di mettere le mani sui capitali stranieri, nel caso in cui provengano da stati sgraditi per ragioni geopolitiche. La finanza occidentale perderebbe il suo principale punto di forza: la sicurezza.

Perché mai un investitore pubblico o privato asiatico, africano o sudamericano dovrebbe portare i suoi capitali in un paese dell’Occidente potenzialmente ostile in futuro?

Status del dollaro a rischio

Se così, a rischiare il tracollo sarebbe, anzitutto, lo status del dollaro quale valuta di riserva mondiale. Ad oggi, anche gli arci-nemici degli Stati Uniti devono comprare dollari per poter commerciare con l’estero, ad esempio per importare materie prime. Ciò si traduce essenzialmente in investimenti automatici in titoli del debito americano. Nei fatti, sono dollari che offrono anche un rendimento annuo. Grazie a questo, il dollaro riesce a mantenersi forte sui mercati internazionali e la Federal Reserve può fissare i tassi di interesse a livelli meno alti di quanto non dovrebbe con un cambio più debole.

Il “super dollaro” garantisce da molti decenni benessere a famiglie, imprese e governo negli States: denaro a basso costo, cambio forte e crescita sostenuta dall’apporto costante di capitali esteri. Un unicum nel mondo, ma che Biden rischia di picconare con una misura più frutto dell’animosità che del raziocinio. Intendiamoci, il dollaro non crollerebbe il giorno dopo che la Casa Bianca annunciasse la confisca dei beni russi sinora congelati. Ma essa accelererebbe, forse non di poco, la corsa alla dedollarizzazione iniziata già da qualche anno e che sta portando al rimodellamento delle alleanze geopolitiche, specie in Asia.

A rischio anche l’Europa

I riflessi di un dollaro più debole si avrebbero anche in Europa. La complicità di Bruxelles e Londra renderebbe le loro stesse valute meno credibili agli occhi del resto del mondo. Il Vecchio Continente non sarebbe la meta alternativa prescelta per parte dei capitali in fuga dagli Stati Uniti. Non è un caso che proprio nelle scorse settimane i vertici europei si siano espressi dubbiosi su una siffatta soluzione, semmai optando per utilizzare gli interessi maturati sui beni russi congelati al fine di sostenere l’Ucraina.

E fa specie che Biden non capisca di avere bisogno più che mai del supporto straniero per finanziare il suo immenso debito pubblico. In rapporto al PIL dovrebbe essersi attestato al 125% nel 2023 e tende ormai a crescere a ritmi insostenibili, anche perché il risparmio interno non riesce ad assorbire tutte le emissioni nette. Senza l’apporto di creditori come Cina ed Europa, i rendimenti dei T-bond esploderebbero e con essi la già rampante spesa per interessi. Il dollaro resta la valuta più autorevole nel mondo, ma minarne la credibilità sarebbe un attimo.

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