L’Italia è stata l’unica tra le economie avanzate ad avere registrato un calo degli stipendi reali tra il 1990 e il 2020: -2,9%. Successivamente, le cose sono andate di male in peggio: alla fine del 2022, un altro -7,5% rispetto a prima della pandemia. I lavoratori italiani perdono potere di acquisto da diversi decenni e non s’intravede all’orizzonte alcuna svolta positiva, malgrado l’aumento dell’occupazione ai massimi storici. Un’altra notizia negativa si è aggiunta in settimana. L’Eurostat ha calcolato che nell’Unione Europea le il costo del lavoro orario sia aumentato in media del 4% annuale nel quarto trimestre del 2023.

Nell’Eurozona, l’aumento è stato del 3,4%. Andando nei dettagli, si scopre che le retribuzioni orarie siano cresciute rispettivamente del 3,8% e del 3,1%, mentre la componente non salariale (contributi previdenziali) del 4,6% e del 4,2%.

Stipendi da fame causano bassa occupazione

Stipendi da fame causano bassa occupazione © Licenza Creative Commons

Calo degli stipendi unico caso in Europa

E in Italia? Unico caso anche stavolta ad avere segnato un calo degli stipendi: -0,1% la componente salariale e -0,2% la componente non salariale. Attenzione, perché stiamo parlando di retribuzioni nominali e non al netto dell’inflazione. Significa che le buste paga sono diventate in media appena più leggere, quando è evidente a tutti che sarebbero dovute salire per adeguarsi all’aumentato costo della vita. Una tendenza a dir poco preoccupante, visto che segnala l’incapacità del lavoro di ottenere un qualche beneficio anche in una fase di ripresa sostenuta dei prezzi.

A furia di decrescere in termini reali – e, ahi noi, persino nominali – le retribuzioni stanno allontanandosi sempre più dalla media delle grandi economie europee. E risultano scese sotto la media dell’intera Unione Europea: 29,40 euro l’ora contro 30,50 euro. Sono dati che ci collocano nella parte bassa della classifica. In sostanza, l’Italia si è cinesizzata per cercare di recuperare competitività e ciò non è neppure bastato per rilanciare il suo tasso di crescita, che ad eccezione del rimbalzo post-Covid è rimasto asfittico.

Il Pil reale resta sotto i livelli del lontano 2007. In cambio, abbiamo abbassato l’inflazione sotto i livelli medi dell’Eurozona, un fatto inedito nella storia italiana. Anche negli ultimi mesi, la crescita dei nostri prezzi al consumo è scesa sotto l’1% contro una media al 2,6% di febbraio.

Bassa produttività del lavoro non unica causa

Il calo degli stipendi è stato sempre spiegato perlopiù dalla bassa crescita della produttività del lavoro. E’ vero fino ad un certo punto. E’ vero anche il contrario. Per dirla con una battuta inglese, “paga noccioline e avrai scimmie a lavorare per te”. La bassa occupazione, specie al Sud, si deve anche all’incapacità delle imprese di pagare i lavoratori con retribuzioni eque. Il lavoro non è appetibile; in particolare, molte donne non trovano conveniente rinunciare ad occuparsi della famiglia per prendere quattro lire al mese.

Il trend negativo è conseguenza di numerosi fattori. Il principale forse risiede nelle piccole dimensioni medie delle imprese, causa di sotto-investimenti, inefficienze gestionali e per l’appunto di bassa produttività del lavoro. Questa non riguarda, in effetti, i soli lavoratori. Se non dispongono degli strumenti idonei, non possono produrre quanto i loro competitor internazionali. Lo rivela anche il fatto che risultiamo tra i più stakanovisti di tutto l’Occidente. Lavoriamo in media 1.877 ore all’anno contro le 1.783 in Germania, 1.627 in Olanda, 1.565 in Francia e 1.866 nel Regno Unito. Veniamo superati di poco dalla Spagna e dagli Stati Uniti.

Boom di esportazioni, male domanda interna

In genere, proprio le economie con bassa produttività registrano orari di lavoro più lunghi. Serve un salto di “qualità” e non di quantità per arrestare il calo degli stipendi ormai senza sosta. Le imprese italiane, oltre ad essere piccole, tendono a concentrarsi in settori maturi e a basso contenuto tecnologico, esposte alla concorrenza internazionale dalle economie emergenti.

Sono riuscite a potenziare le esportazioni, riportando tra l’altro la bilancia commerciale in attivo già nel 2023 dopo un anno di pesante crisi energetica patita con l’esplosione dei costi di petrolio e gas. Ma il rovescio della medaglia sta nelle basse retribuzioni dei lavoratori, che a loro volta deprimono la domanda domestica.

Se non si affronta il tema del calo degli stipendi reali, inutile parlare di posti di lavoro vacanti e di bassa specializzazione tra i lavoratori. Manca l’impulso a migliorarsi se si ha a che fare con retribuzioni da fame. Nel quadriennio 2024-2027 in Italia si stimano 3,8 milioni di offerte di posti di lavoro. La metà riguarderà il settore privato. Ma esiste il serio rischio che molte posizioni rimarranno scoperte, specie nel turismo e nel commercio, dove serviranno 757.000 assunzioni (dati Euromedia Research). Ogni anno, puntualmente arrivano le lamentele degli imprenditori del settore sull’impossibilità di ricoprire tutti i posti necessari per la bassa disponibilità della manodopera.

Calo degli stipendi figlio di mentalità anti-mercato

Alzate gli stipendi! E così che funziona il mercato. I prezzi determinano l’equilibrio tra domanda e offerta. Fa parte della mentalità italiana pensare che debbano adeguarsi solamente i lavoratori alle condizioni del mercato, non anche gli imprenditori. In altre parole, si punta solo al calo degli stipendi per assumere. Quando c’è carenza di lavoratori, invece, non si suppone che debba accadere il contrario. E anche questo pregiudizio è figlio delle basse dimensioni aziendali. Manca una mentalità dinamica e si frigna anche troppo. Non stupiamoci se restiamo in fondo alle classifiche internazionali per tasso di occupazione, innovazione e crescita.

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