L’inflazione resta un grosso problema in Turchia, ma i ritmi di crescita dei prezzi al consumo si stanno normalizzando. A giugno, il tasso annuale è sceso più del previsto al 71,6% dal picco del 75,45% di maggio. Ma la vera buona notizia arriva dai dati mensili: prezzi a +1,64% tra maggio e giugno, la metà del +3,37% tra aprile e maggio e ai minimi da tredici mesi. Il consueto sondaggio della banca centrale offre qualche altro spunto di ottimismo: inflazione attesa al 43% entro fine anno, al 30% tra dodici mesi e al 19,32% tra due anni.

In tutti e tre i casi si è trattato di un calo, pur modesto.

Capitali allettati da tassi al 50%

Secondo l’istituto di Istanbul, Bürücekçi Research and Consultancy, dal mese di ottobre dello scorso anno risultano afflussi di capitali per 24 miliardi di dollari in Turchia. E lo si deve agli alti tassi di interesse fissati dalla banca centrale. Erano all’8,50% nel maggio fino al giugno dello anno, mentre adesso sono al 50%. La stretta monetaria ha dato il via a quello che in gergo si definisce il carry trade, vale a dire prendere a prestito denaro in economie a bassi tassi per investirlo in economie a tassi alti. Gli investitori stranieri detenevano appena lo 0,6% del debito domestico un anno fa, adesso il 6,7%.

Questo ingente influsso di “hot money”, tuttavia, può costituire qualche rischio per la Turchia. Così come arrivano, i capitali speculativi tendono spesso ad andarsene con la medesima velocità. Basta un qualche evento anche esterno, come i rincari di materie prime, a generare i deflussi. Ma il dato di fatto è che anche le riserve valutarie nette sono nettamente migliorate: dai -20 miliardi dell’estate scorsa ai +40 miliardi di questa fase. Denaro, che potrà essere a disposizione della banca centrale qualora dovesse trovarsi nella situazione di difendere la lira turca.

Svolta con rielezione di Erdogan

Il cambio contro il dollaro perde un altro 11% quest’anno, salendo a 33. Ma la svalutazione sarebbe ben maggiore se la banca centrale rimuovesse del tutto i controlli ai movimenti dei capitali. Il cambio di passo è nei fatti, comunque. La Turchia ha svoltato nel maggio dello scorso anno, quando il presidente Recep Tayyip Erdogan venne rieletto dopo essere stato costretto al ballottaggio. Cambiò subito impostazione economica, tra l’altro mettendo al Ministero delle Finanze Mehmet Simsek, apprezzato dai mercati. Questi sta perseguendo una politica fiscale ortodossa, così come alla banca centrale la parola d’ordine è diventata la lotta all’inflazione.

Fattore tempo in favore della Turchia

Malgrado il combinato tra stretta fiscale e monetaria, la crescita del Pil sarà del 4% quest’anno in Turchia, in rallentamento di appena mezzo punto percentuale dal 2023. Ed è attesa in accelerazione l’anno prossimo. Certo, ciò non lenisce i costi a carico delle famiglie, che hanno accusato negli ultimi anni un tracollo del loro potere di acquisto. Basti pensare che in cinque anni i prezzi al consumo risultano più che quintuplicati (+422%). Dalla sua Erdogan ha il tempo. Non ci saranno elezioni di rilievo da qui al 2028, quando i turchi dovranno scegliere il suo successore. Per allora può sperare di raccogliere i frutti del suo ritorno all’ortodossia economica. L’erraticità degli anni passati ha fatto scottare gli investitori.

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