Entro fine mese, la Commissione europea dovrà presentare una proposta ufficiale sulla cosiddetta “carbon tax”. Più formalmente, si chiama “Carbon border adjustment mechanism” (Cbam) e potete scommettere che le reazioni nel resto del mondo saranno vivaci e numerose. Si tratta di un nuovo strumento di lotta all’inquinamento, attraverso un sistema di incentivi-disincentivi legati ai costi.

Sappiamo che con il varo del Recovery Fund, la Commissione ha la necessità di reperire fonti autonome di gettito fiscale per i prossimi decenni per finanziare il programma.

E al contempo, ha sottoscritto un “Green deal”, tra i cui obiettivi vi è quello di tagliare le emissioni inquinanti del 55% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. Ed entro il 2050, l’Unione Europea dovrebbe diventare “carbon neutral”, cioè tendere alle emissioni nette zero.

Come funziona la carbon tax

Sinora, la “carbon tax” è esistita sotto forma di “permessi di inquinare”. Sul mercato, le società che riescono a stare sotto i livelli massimi di inquinamento fissati dalla UE possono vendere i permessi alle società che si collocano sopra di essi. Dunque, chi inquina troppo paga e chi inquina poco viene pagato. Questi permessi sono tradati sul mercato al pari di un qualsiasi future. E nell’ultimo anno, i prezzi sono raddoppiati. Questa settimana, infatti, acquistare il permesso di inquinare per 1 tonnellata di CO2 costa 54,32 euro. Un anno fa, costava meno di 25 euro. Cinque anni fa, in piena estate, il prezzo risultava inferiore ai 5 euro.

Questo meccanismo da un lato incentiva le imprese più inquinanti a ridurre i tassi di inquinamento per tagliare i costi e diventare più competitive, dall’altro finisce per creare una sorta di auto-discriminazione ai danni delle imprese europee. Poiché ad essere tassati sono i livelli di inquinamento prodotti in UE, le concorrenti non UE ne traggono un vantaggio. Con la nuova ipotesi di “carbon tax”, si porrebbe fine a questo paradosso.

Come? Le importazioni di beni sarebbero gravate da una tariffa extra, basata sui prezzi esitati dall’Emissions Trading System di cui sopra.

I rischi legali

Questo nuovo meccanismo eliminerebbe tendenzialmente la concorrenza sleale da parte di quelle industrie dislocate all’infuori della UE e che possono infischiarsene delle regole ambientali, esportando nel Vecchio Continente a prezzi più competitivi. Di fatto, parliamo di un nuovo dazio “green”, ma il commissario agli Affari monetari, Paolo Gentiloni, ci tiene a precisare che non si tratti di una barriera tariffaria. Eppure, c’è il rischio che i principali partner della UE, a cominciare dall’India, così la vedono e trascinino Bruxelles nelle sedi internazionali per ottenere l’abrogazione della nuova “carbon tax”.

Ad essere sinceri, è già accaduto che nel 2010 la UE volesse imporre questa tariffa sulle tonnellate di carburante emesse dagli aerei anche non europei. Le proteste vivaci del Brasile finirono per spingere i commissari al passo indietro. E così, fino alla fine del 2023 la “carbon tax” per il settore aereo è imposta solamente sui voli tra gli aeroporti in UE.

Di certo c’è che Bruxelles prenderebbe due piccioni con una fava, se riuscisse nei suoi intenti. Anzitutto, eliminerebbe alla radice la concorrenza sleale da parte delle imprese extra-UE più inquinanti e, soprattutto, spingerebbe i principali partner commerciali ad adottare criteri di sostenibilità ambientali simili. E sappiamo che solo così la lotta all’inquinamento potrà risultare efficace. Al contrario, se la UE e qualche altra economia avanzata restassero le sole a stangare le proprie imprese, l’unico risultato che otterrebbero sarebbe di rovinare il proprio business a favore di soggetti più inquinanti.

Le attuali incongruenze

Certo, così com’è ingegnata la “carbon tax” ad oggi avrebbe provocato casi di fallimento del mercato. Questo è almeno quanto sostiene il consulente ambientale CE Delft, secondo cui le società che fanno un uso più intenso di energia avrebbero maturato profitti fino a 50 miliardi di euro tra il 2008 e il 2019.

Esse avrebbero beneficiato di elevati tetti per le emissioni inquinanti imposti ai rispettivi settori, riuscendo a starvi sotto e a vendere i permessi di inquinare al resto del mercato. Tra queste troviamo l’industria siderurgica e del ferro (12-16 miliardi) e le raffinerie (7-12 miliardi). Per questo, CE Delft chiede che il sistema sia rivisto per evitare simili esiti.

Ma stangare maggiormente queste realtà significherebbe renderle ancora meno competitive sui mercati internazionali, a meno di non adottare la Cbam ipotizzata. Del resto, l’onere della “carbon tax” ricade sul cliente finale. Sono i consumatori a pagare la lotta all’inquinamento, il cui obiettivo nobile va bilanciato con quello non secondario della tutela dell’economia nel suo complesso e del potere di acquisto delle famiglie, specie in una condizione quale quella che emerge dalla pandemia. E l’industria siderurgica ha già annunciato la propria opposizione al nuovo schema, a meno che questo non preservi la loro competitività.

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