Questa settimana, l’Ania, principale associazione delle assicurazioni operanti in Italia, ha convocato le compagnie più importanti per cercare una soluzione in favore di Eurovita. Questa è stata commissariata dall’IVASS, l’authority di vigilanza per il mercato assicurativo, un mese fa. E fino al 31 marzo ha disposto il blocco dei riscatti delle polizze per i clienti. Nel frattempo, Alessandro Santoliquido è stato nominato commissario e ha tempo fino alla fine di questo mese per trovare operatori interessati ad iniettare liquidità fresca stimata in 250-300 milioni di euro per soddisfare i requisiti minimi di Solvency II.

Il principale azionista di Eurovita è Cinven e a febbraio ha messo sul piatto 100 milioni di euro per evitare il crac della compagnia controllata. Non si esclude che possa alzare il proprio contributo, anche se viene da chiedersi perché non lo abbia fatto prima, su sollecitazione già nel 2022 dell’IVASS, quando si rifiutò di mettere mano al portafogli. Fatto sta che neppure l’Ania sembra essere riuscita a convincere le compagnie a prestare soccorso ad Eurovita. La ricapitalizzazione necessaria dovrebbe arrivare fino a 400 milioni, più dei livelli indicati dall’authority.

Eurovita canarino in miniera?

Ad ogni modo, non sembrano importi impressionanti. Specie se l’obiettivo consiste nell’impedire che dilaghi una crisi di fiducia verso il mercato assicurativo. Avrebbe costi ben maggiori per tutte le compagnie e con esiti potenzialmente devastanti per alcune. A differenza delle banche italiane, qui non esiste un meccanismo di sostegno come il Fondo interbancario di tutela dei depositi. C’è da dire, però, che storicamente le compagnie sono state meno esposte a crisi di liquidità come gli istituti di credito.

Eppure, il caso Eurovita invita non solo alla prudenza, ma a stare in guardia. Se non è il classico canarino in miniera, bisogna scongiurare che lo diventi. Il fatto è questo: le compagnie assicurative investono perlopiù sul mercato a reddito fisso.

Ottengono in cambio rendimenti stabili nel tempo e si addossano relativamente scarsi rischi di credito, oltre che di volatilità dei titoli. Questo discorso diventa ancora più pregnante per il ramo I, con gestione separata e investimenti concentrati in titoli di stato.

Negli anni passati, Eurovita e tutte le altre compagnie in Italia e all’estero avevano potuto investire solamente in asset poco o affatto remunerativi. I titoli di stato rendevano sottozero fino alle scadenze medio-lunghe (in Germania su tutta la curva fino ai 30 anni), per cui erano state costrette a puntare sulle scadenze lunghe e ultra-lunghe per non impiegare i capitali dei clienti in perdita. Naturalmente, con il drastico rialzo dei tassi di questi mesi i prezzi dei bond sono collassati. In cambio, sono schizzati i rendimenti.

Rialzo dei tassi minaccia per mercato assicurativo

Ufficialmente, il patrimonio delle compagnie risulta poco impattato da questo trend. E questo è dovuto al fatto che gli asset acquistati sono considerati detenuti fino alla scadenza. Pertanto, non devono essere rivalutati ai prezzi di mercato. In parole povere, se una data compagnia ha comprato un bond a 100 e questi è sceso di prezzo a 40, non deve svalutarlo a bilancio del 60%, a meno che non debba rivenderlo. Solo a quel punto riporterebbe una perdita. E proprio nella giornata di ieri è arrivato un segnale minaccioso in tal senso dagli Stati Uniti, dove SVB Financial rischia di essere chiusa dalla controllante Silvergate Capital. Ha bisogno con urgenza di raccogliere 2 miliardi di dollari a titolo di capitale per coprire le perdite del proprio portafoglio obbligazionario.

In teoria, non esisterebbe alcuna ragione per cui le compagnie assicurative debbano rivendere i bond prima della scadenza, fuorché in un caso: che abbiano bisogno di liquidità. E questo avverrebbe se i clienti iniziassero a riscattare le polizze. A loro volta, essi avrebbero motivo di farlo nel caso in cui i rendimenti offerti fossero troppo magri e ben inferiori alle nuove medie di mercato.

D’altra parte, se una compagnia nell’anno X aveva investito portando a casa un rendimento del 2%, non ha certamente potuto offrire più di tanto alla clientela. Solo che oggi quel rendimento vale niente. Persino un BoT a 12 mesi offre più del 3,60% lordo.

E qui veniamo alla ragione per cui probabilmente nessuno starebbe correndo a prestare soccorso ad Eurovita. Le compagnie vogliono trattenere più liquidità possibile, consapevoli di essere esposte a rischi, indipendentemente da cosa suggerisca il Solvency II. Non è una crisi di fiducia vera e propria a dover preoccupare il comparto. Questa potrebbe montare, tuttavia, nel caso di liquidazione di Eurovita. E’ la distonia tra condizioni attuali di mercato e quelle passate a impensierire. Se accelera il numero dei riscatti dei clienti, giustamente a caccia di opportunità d’investimento più redditizie, si genererebbe una crisi di liquidità per il semplice fatto che ciò che sul piano patrimoniale è valutato oggi a 100, ai prezzi di mercato vale molto meno. Siamo al paradosso che tutti avrebbero interesse a salvare Eurovita, ma nessuno vuole restare a corto di liquidi per il caso in cui si dovesse trovare presto in condizioni simili.

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