Ci lascia all’età di 98 anni uno dei protagonisti indiscussi della vita politica e istituzionale italiana negli ultimi decenni. E’ stato ribattezzato “l’uomo delle prime volte”. Il suo soprannome forse più conosciuto, spesso con accezione sprezzante, è stato Re Giorgio. Giorgio Napolitano fu il primo dirigente dell’allora PCI ad ottenere il visto d’ingresso per gli Stati Uniti negli anni Settanta di Jimmy Carter. Una ventina di anni più tardi sarebbe stato il primo ex comunista a guidare il Viminale.

Nel 2006, fu il primo ex comunista a diventare presidente della Repubblica e nel 2013 il primo in assoluto ad essere stato rieletto. Il suo nome resterà irrimediabilmente legato alla drammatica crisi dello spread che travolse l’Italia nel 2011.

Crisi spread 2011 e rischio default

Ed è questa la ragione preminente per la quale i giudizi politici sulla figura dello statista anche oggi restano profondamente divergenti. Per molti è stato colui che salvò l’Italia dal default. Per altri il fautore di una forzatura costituzionale per disarcionare l’allora governo Berlusconi. Dicevamo, siamo in quel maledetto 2011. Il Sud Europa e l’Irlanda sono nel mirino dei mercati finanziari. La Banca Centrale Europea (BCE) era tornata ad alzare i tassi di interesse per la prima volta dalla crisi finanziaria del 2008-’09. La Grecia era stata salvata con un “bailout” internazionale, a seguire toccò all’Irlanda e al Portogallo. Poco dopo sarebbe spettata sorte simile al sistema bancario spagnolo.

Sul piano politico l’Italia si presentava fragile. Il centro-destra era diviso dopo l’addio all’esecutivo dei “finiani”. Pur godendo ancora della maggioranza parlamentare, si respirava aria di semi-paralisi operativa. Fu in quei mesi che Re Giorgio, così chiamato per il suo stile quasi monarchico nell’espletare il mandato, avrebbe sondato la disponibilità di altre figure autorevoli a guidare il governo in caso di crisi. E’ primavera e già sui giornali iniziava a circolare il nome di Mario Monti, rettore dell’Università Bocconi, economista di spicco e già apprezzato commissario europeo alla Concorrenza, nominato proprio dal primo governo Berlusconi nel 1994.

Flop governo Monti

Arriviamo all’estate e la BCE invia a Roma la famosa lettera per chiedere la realizzazione di una cinquantina di riforme. I mercati dedussero che l’Italia fosse sotto sorveglianza. La crisi dello spread si aggravò fino all’epilogo fatale di novembre. I BoT a 6 mesi in asta batterono rendimenti record al 6,4%. Pochi giorni prima, il Parlamento non era riuscito ad approvare a maggioranza assoluta il Rendiconto dello Stato. Il premier rassegnò le dimissioni. Re Giorgio nominò Monti senatore a vita e il giorno dopo gli affidò l’incarico di formare il nuovo governo.

Fu complotto o saggia reazione ad una crisi che avrebbe potuto diventare catastrofica? Le opinioni non convergeranno mai sul punto. Di certo l’esperienza Monti non andò come previsto. I mercati non abbassarono la testa, la crisi dello spread raggiunse l’apice nel luglio 2012, quando servì il “whatever it takes” di Mario Draghi per spegnere l’incendio. L’economia italiana entrò in un lungo triennio di profonda recessione dalla quale non si sarebbe ripresa. Il deficit statale scese di poco, i tagli ai servizi pubblici (vedi sanità) furono pesanti e i redditi degli italiani andarono ancora più indietro.

Addebitare ogni responsabilità all’allora presidente della Repubblica sarebbe, tuttavia, un esercizio di malafede. Piaccia o meno, il “suo” governo passò il vaglio del Parlamento a larghissima maggioranza. Votarono contro solo Lega e Italia dei Valori. Coloro che gridarono al “golpe” (centro-destra), sostennero quel passaggio. Anzi, lo stesso Berlusconi fu artefice nel 2013 della rielezione di Napolitano. Strano a dirsi dopo anni di accuse di complotto ai suoi danni.

Errori di Re Giorgio

Ciò premesso, Re Giorgio commise più di un errore al Quirinale.

Non comprese fino in fondo il senso di profondo disagio degli elettori per manovre di palazzo che sembrarono passare sopra le loro teste e ai danni delle loro tasche. A tratti, l’uomo diede l’impressione di non nutrire sufficiente fiducia nei partiti presenti in Parlamento e ciò incrementò il clima di delegittimazione dell’intera politica. Con la nomina dei “saggi” durante il governo Letta e l’appoggio alla riforma costituzionale varata sotto il governo Renzi, l’immagine di equidistanza del presidente si sgretolò definitivamente.

In conclusione, difficile capire a posteriori se avremmo potuto affrontare diversamente la crisi dello spread sul piano sia politico che macroeconomico. Il ricorso ai “tecnici” si rivelò inefficace, ampliò la spaccatura tra palazzo e cittadini e portò alla vittoria dell’antipolitica nel decennio successivo con l’ascesa apparentemente inarrestabile del Movimento 5 Stelle. Questo è il lascito paradossale di Re Giorgio. L’uomo politico e iper-istituzionale per biografia e mentalità è finito involontariamente per avallare una stagione di populismo imbastito di anti-politica. Non fu l’unico responsabile di questa china, ma di certo il più autorevole.

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