Nelle scorse settimane la crisi in Argentina ha imposto alla banca centrale l’emissione di nuove banconote con un valore nominale doppio di quello massimo sino ad allora in vigore. I nuovi pezzi da 2.000 pesos si sono resi necessari per effetto del combinato tra boom dell’inflazione e crollo del cambio contro il dollaro. Ai tassi ufficiali, valgono oggi poco più di 8 dollari. Al mercato nero, tuttavia, non vanno oltre i 4 dollari. E pensare che fino alla fine del 2001, il cambio era ancora di 1:1 contro il biglietto verde.

Da allora, perde il 99,80%.

Lo scorso fine settimana, il ministro dell’Economia, Sergio Massa, è volato fino a Pechino per incontrare i responsabili della Banca Popolare Cinese. E’ tornato a Buenos Aires con la valigia piena di dollari. L’istituto centrale asiatico ha non solo esteso di tre anni la durata dello swap siglato nel 2020, ma ha altresì raddoppiato a 130 miliardi di yuan (19 miliardi di dollari) la parte a disposizione della banca centrale argentina. Ed ecco che questa avrà altri 10 miliardi da utilizzare eventualmente sul mercato forex a sostegno del cambio.

Ossigeno puro per un paese con le riserve valutarie in calo per via degli interventi tesi a porre un argine alla caduta dei pesos. Ma ciò non sta servendo granché per frenarne la crisi. Al mercato nero, il cambio viaggia su livelli doppi rispetto a quello ufficiale e segna un pesante -58% nell’ultimo anno. Non può andare diversamente con un’inflazione esplosa ad aprile al 108,8% e destinata, secondo gli analisti, a tendere fino al 130%. Dinnanzi a questa ennesima e gravissima crisi dell’Argentina, la Cina non sta aprendo solo il portafogli, ma anche le porte dei cosiddetti BRICS.

Crisi argentina, vicino ingresso tra BRICS

Sempre nei giorni scorsi, Massa ha incontrato la presidente della Nuova Banca per lo Sviluppo, Dilma Rousseff.

La donna è l’ex capo dello stato del Brasile e guida al momento l’istituzione finanziaria alternativa al Fondo Monetario Internazionale. Le due delegazioni hanno dibattuto sull’ingresso dell’Argentina tra i BRICS, cioè le economie emergenti che puntano a creare un asse contro quello che definiscono lo “strapotere” geopolitico dell’Occidente. Buenos Aires dovrà versare 250 milioni di dollari a titolo di capitale. Solo con l’ingresso avrebbe l’opportunità di chiedere e ottenere aiuto per le sue disastrate finanze statali. Lo ha fatto presente di recente il presidente brasiliano Lula, ovviamente favorevole.

In fila per partecipare alla Nuova Banca per lo Sviluppo ci sono Arabia Saudita, Egitto e Zimbabwe, solo per citare i possibili ingressi imminenti. In realtà, ad essersi prenotati sono oltre una ventina di paesi, soprattutto tra Africa e Asia. Per la Cina la crisi argentina rappresenta una grande opportunità per soffiare definitivamente all’Occidente una delle principali economie latino-americane. Buenos Aires è un caso perso per le istituzioni finanziarie mondiali. Pechino lo sa benissimo, ma vede il suo ingresso tra i BRICS come un evento geopolitico di estremo rilievo da annoverare tra i successi diplomatici in funzione anti-USA.

L’ultima parola, però, non è detta. Il definitivo trasloco dell’Argentina dalla sfera occidentale dipenderà con ogni probabilità dall’esito delle prossimi elezioni presidenziali in programma ad ottobre. La coalizione peronista oggi al potere è debolissima, ma il fronte avversario non è unito al primo turno. I consensi in quel campo sono quasi equamente ripartiti, stando ai sondaggi, tra il centro-destra tradizionale e la destra “trumpiana” del candidato anarco-capitalista Javier Milei. Questi potrebbe persino accedere al ballottaggio con un programma fondato sullo smantellamento della banca centrale e la dollarizzazione dell’economia per affrancare l’Argentina dall’inflazione e dallo strapotere della politica.

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