Quando si presentò in campagna elettorale, più o meno un anno fa, indossando il giubbotto di pelle, maneggiando una motosega e chiudendo ogni comizio con “viva la libertad, carrajo”, in pochi lo presero sul serio. Oggi, Javier Milei è presidente dell’Argentina da cinque mesi. Un “underdog”, per usare un termine caro alla nostra premier Giorgia Meloni, è riuscito a spodestare i peronisti dal potere e, soprattutto, a porre fine alle loro follie ideologiche che hanno massacrato l’economia un tempo ricca dello stato sudamericano.

Certo, se non avessero compiuto disastri inenarrabili, probabile che a Casa Rosada ci sarebbe oggi un capo dello stato più “normale”. Ma gli argentini volevano cambiare, non ne potevano più di un governo corrotto, spendaccione, clientelare, di un’inflazione a tre cifre e una moneta diventata carta straccia.

Primi successi economici per Milei

Milei ha promesso sacrifici iniziali, smentendo quell’appellativo di “populista” che certa stampa progressista gli aveva cucito addosso per pigrizia mentale. E’ stato sinora l’esatto contrario del populismo: maxi-svalutazione del cambio del 55% il giorno dopo l’insediamento, tagli draconiani alla spesa pubblica, compresi i sussidi per le bollette della luce, liberalizzazioni e privatizzazioni. Una svolta “thatcheriana” che sta esitando già i suoi frutti. L’inflazione è salita al 290%, ma il ritmo con cui i prezzi al consumo crescono su base mensile si è ridotto sotto il 10%, scendendo all’8,8% in aprile, ai minimi dall’ottobre scorso.

Conti pubblici in attivo, nuovi aiuti dall’FMI

E nel primo trimestre dell’anno, l’Argentina ha chiuso il bilancio con il primo surplus fiscale dal 2008: 1.133 miliardi di pesos, qualcosa come 1,18 miliardi di euro. Il surplus primario, al netto della spesa per interessi, è stato di ben 3.868 miliardi di pesos (4 miliardi di euro). Rispetto al Pil, lo 0,2% il primo e lo 0,6% il secondo. Su base annuale, l’aggiustamento fiscale è stimato al 6% del Pil.

Un’enormità. I tagli alla spesa sono stati di 8.300 miliardi di pesos, riguardando per il 35% le pensioni, il 15% gli investimenti diretti, il 13% i trasferimenti alle province, il 9% i sussidi per l’energia e il 7% gli stipendi pubblici.

Le condizioni di vita degli argentini si sono fatte ancora più dure sotto Milei. Lo stesso presidente stima il tasso di povertà al 60%. Ma nell’annunciare i primi risultati, ha affermato che il suo Paese sarebbe già a più di metà strada. Ha prospettato la fine dei sacrifici tra pochi mesi. Nel frattempo, le importazioni di energia sono crollate ai minimi da sette anni e i raccolti di cereali sono cresciuti del 27,4%. Anche questi numeri stanno contribuendo positivamente ai primi successi della nuova era. Le riserve valutarie stanno risalendo. E il Fondo Monetario Internazionale ha appena stanziato altri 800 milioni di dollari, riconoscendo gli sforzi superiori alle attese di Buenos Aires.

Riforme subito, evitato l’errore fatale di Macri

Da economia perduta e senza speranza a possibile esempio per stati come l’Italia. Senza volere fare il panegirico di Milei, i suoi primi passi insegnano qualcosa a noi che da decenni parliamo di riforme e ci riempiamo la bocca di misure che non vedono neppure la discussione in Parlamento. Malgrado la vita di tutti i giorni si sia fatta molto complicata, gli argentini continuerebbero a sostenere il loro presidente. E non per un atto di masochismo, bensì perché consapevoli che egli stia mettendo in pratica le promesse elettorali e prospetti un miglioramento visibile e definitivo per l’economia nazionale. Insomma, stanno testando la svolta neo-liberista.

Milei non ha perso tempo in chiacchiere e, pur sprovvisto di una maggioranza al Congresso, ha deciso di andare “all-in” con le riforme. Ha capitalizzato il successo elettorale per imporre la propria agenda agli alleati del centro-destra e sa che la luna di miele prima o poi finirà.

Tra alcuni mesi dovrà già essere in grado di presentarsi con qualche risultato tangibile per non perdere forza e credibilità. E allora è meglio fare le riforme subito e attenderne l’efficacia. Male che vada diverrebbe impopolare per avere fatto ciò che aveva promesso. Il precedente di Mauricio Macri è una lezione per tutti. Il centrista fu presidente tra il 2015 e il 2019, ebbe l’occasione storica di porre fine al peronismo, ma tentennò sulle riforme e i mercati non gliela perdonarono. Ci fu una grave crisi finanziaria nel 2018, che spalancò il portone di Casa Rosada ad Alberto Fernandez l’anno dopo, ossia al pupazzo nelle mani di Cristina Fernandez de Kirchner.

Milei punta sulla velocità per rivoltare l’Argentina

In Italia le riforme non si fanno mai, perché nessuno se ne vuole assumere mai l’onere dell’impopolarità. La storia insegna che questa arriva ugualmente per assenza di miglioramenti economici. I governi cambiano, le alleanze che li sorreggono sono le più stravaganti possibili, ma alla fine le vite degli italiani non migliorano. Gli stipendi dei lavoratori sono più bassi di trenta anni fa, cosa che non è accaduta altrove nel mondo ricco. Milei ha imposto l’austerità fiscale, la svalutazione e politiche pro-mercato improntate a liberalizzazioni e privatizzazioni entro poche settimane dall’insediamento. Già può vendere qualche risultato e auspicare che ne arrivino di più importanti entro l’estate. La velocità è tutto. Serve a ripristinare la fiducia perduta sui mercati verso l’Argentina. La percezione è cambiata, c’è ancora prudenza, ma l’ottimismo avanza anche tra gli scettici della prima ora. I surplus fiscali segnalano che il peronismo non c’è più a Buenos Aires.

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