Intesa Sanpaolo ha aperto il dibattito sulla settimana di lavoro corta. In fase di trattative con i sindacati per il rinnovo del contratto, ha proposto per i dipendenti negli uffici 36 ore di lavoro suddivisi in 4 giorni settimanali da 9 ore ciascuno. Chiaramente, tutto a parità di stipendio. Ad oggi, il contratto prevede 37,5 ore spalmate su 5 giorni. Fabi, Fisac Cgil, First Cisl, Uilca e Unisin chiedono alla banca di offrire la stessa possibilità anche ai lavoratori della rete, al fine di non accentuare le disparità di trattamento.

Fatto sta che un grosso imprenditore, che solo in Italia vanta 74.000 dipendenti, ha gettato il sasso nello stagno. L’iniziativa arriva dopo che da anni di discute anche nel nostro Paese dell’opportunità di ridurre l’orario di lavoro a parità di stipendio.

Diversi studi dimostrerebbero che la produttività dei lavoratori aumenterebbe. In pratica, riuscirebbero a svolgere lo stesso carico di lavoro in minori ore. E ciò placherebbe i timori di quanti, specie tra gli imprenditori, temono che iniziative come queste finiscano per aumentare il costo orario del lavoro.

C’è da dire che la proposta di Intesa Sanpaolo non arriva in un periodo a caso. L’esigenza di limitare i consumi di energia (luce e gas) sta spingendo alcune grandi aziende a ripensare il proprio modello organizzativo. In queste settimane, hanno informato i loro dipendenti che la presenza in ufficio sarà limitata durante la settimana. Il resto sarà svolto in smart working. E così, uno strumento resosi indispensabile in pandemia, adesso continua a rivelarsi necessario per contenere i costi. I sindacati non concordano del tutto, ritenendo che con le bollette esplose, i lavoratori avrebbero bisogno di un’integrazione salariale per compensare il sostenimento dei costi di luce e gas a casa.

Settimana corta con stesso orario o più basso

Tornando alla settimana corta, sarebbe il caso di non prospettare alcuna generalizzazione, meno che mai forzata dalle leggi.

Le singole imprese sono in grado meglio di chiunque altro di capire se concentrare il lavoro in meno giorni o se ridurre complessivamente l’orario di lavoro siano sostenibili. Viviamo un periodo delicatissimo. L’inflazione vola verso il 10% e sembra destinata a restare alta a lungo. Il potere di acquisto dei lavoratori sta crollando, mentre anche le imprese soffrono l’erosione dei margini. Gli aumenti dei prezzi praticati, infatti, quasi sempre riflettono pari incrementi dei costi per l’acquisto delle materie prime e/o il caro bollette.

Dunque, le imprese non sono attualmente capaci di aumentare gli stipendi. Faticano a stento a sopravvivere al caro bollette. Tutto possiamo immaginare, fuorché possano subire una lievitazione dei costi del lavoro orario. Nel caso di Intesa Sanpaolo, la settimana corta comporta anche la riduzione di 1,5 ore di lavoro sulle attuali 37,5, cioè del 4%. Possiamo immaginare che diverse imprese saranno nelle condizioni di offrire ai propri dipendenti il medesimo orario di lavoro spalmato su meno giorni (4 anziché 5 alla settimana), così da risparmiare sui costi in ufficio.

Difficile che in questa fase possano anche ridurre il monte-ore complessivo. Sarebbe già un miracolo se si mostrassero capaci di ritoccare all’insù le retribuzioni. Non è tempo di condurre battaglie ideologiche sulla settimana corta. L’emergenza di questi mesi è di conservare il posto di lavoro e il potere di acquisto. E l’inverno si prospetta lungo e pieno di insidie. Basta un errore di calcolo e la settimana di lavoro diverrebbe ultra-corta: a 0 ore e senza più stipendio.

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