Quando nel maggio del 2017 il 39-enne Emmanuel Macron venne eletto presidente della Francia, vi fu in patria e all’estero la speranza di una svolta parigina dopo decenni di apparente immobilismo politico. Là dove aveva fallito Nicolas Sakozy, vale a dire di rendere l’economia domestica più libera, meno tartassata e vivace, si pensava che sarebbe riuscito l’enfant prodige del nuovo corso transalpino. I suoi avversi, a destra e a sinistra, lo descrissero sin da subito come un bluff, una marionetta nelle mani della tecnocrazia europea e dell’establishment bancario.

Sono passati sette anni e possiamo affermare senza ombra di dubbio che l’esperimento è fallito. Sotto tutti i punti di vista.

Macron tante chiacchiere, pochi risultati

Il Pil francese dovrebbe crescere meno dell’1%, quanto o meno dell’Italia. Da quando Macron è presidente, la crescita media è stata dello 0,9%. Certo, c’è stata la pandemia di mezzo, ma rispetto all’Italia non ha fatto granché meglio. La spesa pubblica in rapporto al Pil è rimasta sostanzialmente invariata sopra il 57%. I famosi tagli al bilancio sono rimasti fumo negli occhi degli investitori, perché nel concreto l’economia francese era e resta tartassata. La svolta liberale o thatcheriana è stata perlopiù a parole.

Di riforme sotto Macron ce ne sono state. Il mercato del lavoro è più libero, sulle pensioni è stata vinta la battaglia dopo decenni di inconcludenza, anche se a costo di paralizzare per mesi la nazione tra scioperi e proteste. Sarebbe ingiusto dire che il presidente le abbia sbagliate tutte. Ma sarebbe altrettanto insensato negare l’evidenza: Macron è oggi detestato da quell’80% dei francesi che non lo vota. La causa di tanto malessere è il suo carattere arrogante, la totale assenza di empatia che lo caratterizza, nonché l’incapacità di comunicare anche quando dice cose giuste.

Arroganza grosso limite all’Eliseo

Macron ha sparigliato le carte della politica francese con il suo centrismo.

E’ stato sin da subito considerato di destra dagli elettori della gauche e di sinistra da quelli conservatori. Ha attinto effettivamente al bagaglio culturale degli uni e degli altri. Era stato ministro dell’Economia sotto la fallimentare presidenza di François Hollande, che non si ricandidò neppure per un secondo mandato, certo dell’umiliazione che avrebbe subito alle urne.

Oggi, votare per Marine Le Pen da una parte o per Jean-Luc Mélenchon dall’altra significa, anzitutto, votare contro Macron. Ed è per questo che quelle che un tempo erano considerate le ali estreme, adesso sono guardate con simpatia dalla maggioranza assoluta dell’elettorato. Sono stati puniti quei partiti come i gollisti e i socialisti, che hanno espresso verso l’Eliseo in questi anni una linea di opposizione troppo timida. A Parigi in tanti non hanno capito che la non opposizione a Macron è stata la loro morte politica.

Limiti della tecnocrazia europea

Macron soffre della stessa malattia di cui sono afflitti tutti o quasi i tecnocrati: l’assoluta convinzione di essere superiori agli altri, di saperne di più. In Italia lo abbiamo visto con i famosi “tecnici” prestati alla politica. Anche quando hanno fatto le cose giuste (in gran parte lo erano), le hanno attuate e comunicate nel modo sbagliato. La differenza tra tecnocrazia e politica sta nel fatto che la seconda attinge alle conoscenze della prima per farle proprie e adattarle ai contesti, con le modalità che ritiene più opportune. La prima non dialoga, pretende di essere in possesso di verità indiscusse e che tutti debbano accettarle, quali che siano i costi.

Cordone anti-lepenista non funziona più

La repulsione diffusa suscitata dalla tecnocrazia europea impersonificata da Macron ha seminato discordia, caos e lacerazioni in Francia. Dai gilet gialli agli scontri di piazza sulle pensioni, l’Eliseo è finito nel mirino di folle di contestatori sempre meno isolati.

Anche l’ultima mossa del presidente ha attirato le ire persino dei suoi stessi sostenitori. Per replicare alla dura sconfitta del suo partito alle elezioni europee, ha sciolto l’Assemblea Nazionale e indetto elezioni anticipate a fine giugno. Era accaduto solo una volta nel 1997 con Jacques Chirac che sperava di conquistare una più ampia maggioranza di seggi per approvare la riforma delle pensioni. Si ritrovò a coabitare per i successivi cinque anni con i socialisti al governo.

L’idea che le istituzioni siano state asservite agli scopi personali o, comunque, di parte di Macron è diffusa tra i francesi. La sua fortuna sia nel 2017 che nel 2022 fu di finire al ballottaggio contro Le Pen, evocando il cordone sanitario in difesa dello spirito repubblicano. Sembra una storia che non convince più. I livelli di arroganza del suo modo di intendere la gestione del potere sono arrivati al punto da spingere la maggioranza dei francesi di votare per chiunque possa batterlo.

Elezioni anticipate possibile Waterloo per Macron

Con Macron i francesi dovranno fare i conti per i prossimi tre anni. Quale che sia l’esito delle elezioni del 30 giugno, la Costituzione è chiara: il presidente resta in carica. Ma egli non si rassegnerebbe ad essere considerato e nei fatti un’anatra zoppa. Per questo è trapelata la notizia, smentita dal diretto interessato, che si dimetterebbe nel caso di sconfitta del suo partito. La sola ipotesi può galvanizzare quanti non vedano l’ora di vederlo fuori dall’Eliseo. E come una profezia che di auto-avvera, Macron realmente rischia di concludere in anticipo la sua avventura politica. Con il cancelliere Olaf Scholz in forte declino e mai autorevole in Europa sin dal suo debutto come capo del governo in Germania, il galletto avrebbe potuto spadroneggiare, forte del ruolo politico della Francia. Invece, complici i suoi limiti caratteriali, rischia di perdere l’opportunità tanto ambita: diventare il Napoleone dell’era moderna.

A fine mese potrebbe esserci la sua Waterloo.

[email protected]