Non si parla più da anni di crisi dell’euro. Sembra alle spalle il rischio che la moneta unica corse tra il 2011 e il 2012, quando i mercati scommisero sulla sua imminente sparizione. Ci volle il “whatever it takes” di Mario Draghi per fermare la speculazione. L’allora governatore della Banca Centrale Europea (BCE) si vide costretto ad improvvisare un discorso da Londra, in cui avvertì gli investitori che avrebbe fatto di tutto per salvare l’unione monetaria. E aggiunse: “credetemi, basterà!”.

Piano piano gli spread scesero e le tensioni finanziarie nell’area rientrarono. Oggi, per fortuna quei tempi ci sembrano lontani, sebbene proprio tra pandemia, guerra, inflazione e aumento dei tassi i dubbi sulla tenuta dell’Eurozona sono riapparsi. Ma la verità è che la crisi dell’euro è proseguita anche dopo quell’infausto 2012, pur con altre modalità. Se diamo un’occhiata ai tassi di cambio, ci accorgiamo che oggi le banconote che abbiamo in tasca valgono molto di meno rispetto alle altre principali valute mondiali.

Da Lehman cambio giù

Possiamo individuare il fischio di inizio della crisi nell’estate nel 2008. A settembre di quell’anno vi fu il crac di Lehman Brothers. Si scatenò una potente crisi finanziaria mondiale. I capitali si rifugiarono nei cosiddetti “porti sicuri”, quei “safe asset” tanto ambiti quando le cose di mettono male. Ne approfittarono principalmente oro, dollaro e franco svizzero. L’Eurozona scoprì a proprie spese che l’euro non rientrasse tra gli asset percepiti come sicuri. Anzi, proprio il modo poco coordinato con cui reagì alla crisi aveva dissuaso gli investitori dal portare i propri capitali nell’area.

Fino al momento Lehman, 1 euro arrivò a comprare 1,70 franchi svizzeri e 1,60 dollari. Oggi, con 1 euro portiamo a casa 0,95 franchi e 1,06 dollari. La valuta elvetica si è rafforzata ai massimi storici contro la moneta unica. E l’anno scorso, il biglietto verde arrivò ad apprezzarsi ai massimi da venti anni.

Persino contro lo yen non abbiamo compiuto passi in avanti da quel maledetto 2008. Segniamo, invece, un +10% contro la sterlina inglese rispetto ad allora. Ma conosciamo le vicissitudini che vi stanno dietro a questo dato.

Crisi euro da unione incompleta

A cos’è dovuta la debolezza dell’euro? Principalmente, rispecchia un’economia stagnante. L’Eurozona cresce poco quando la congiuntura mondiale è positiva e resta ferma quando questa arranca. Ha altresì il difetto di essere un’unica area monetaria con venti gestioni fiscali differenti. Per quanto queste siano coordinate da Bruxelles, ogni paese va per conto suo sui conti pubblici e la BCE non ha mai voluto infrangere il tabù di contenere formalmente gli spread, cioè i differenziali di rendimento dei titoli di stato.

Questo fa sì che l’area venga percepita sempre in preda all’instabilità e all’inefficienza della stessa politica monetaria, visto che è difficile trovare misure adatte per Germania e Italia allo stesso tempo. O Francoforte riesce a contrastare l’inflazione ignorando un’eventuale crisi fiscale o ignora l’inflazione per sventare sul nascere una possibile crisi fiscale. Naturale che i capitali restino alla finestra, anzi che si dirigano verso lo stato alpino o navighino l’Atlantico per approdare negli Stati Uniti. Peccato che l’euro fosse nato con l’ambizione di affiancarsi proprio al dollaro come valuta di riferimento mondiale. E’ accaduto, invece, che persino il franco svizzero, valuta di un piccolo stato di 8 milioni di abitanti, riesca a metterlo sotto scacco, risultando più affidabile.

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