Anche quest’anno saranno ventiquattro ore di retorica a fiumi per la Festa dell’1 maggio dedicata al lavoro. Celebrazioni ufficiali, il solito Concertone romano trito e ritrito con tanto di artisti col rolex al polso ad inveire contro lo sfruttamento dei lavoratori, a favore dei diritti, della diversità, bla bla bla. Nulla di nuovo e di serio sotto i cieli italiani. L’unica novità forse stavolta è che si terrà un Consiglio dei ministri per varare misure a sostegno della crescita economica e dell’occupazione.

E a presiederlo è il primo presidente del Consiglio di destra dell’era repubblicana, oltre che la prima donna a capo di un governo nel Bel Paese: Giorgia Meloni.

Festa 1 maggio sempre con poco lavoro

Della Festa dell’1 maggio non rimane ormai nulla da decenni, se non la fuffa mediatica e le sfilate carnescialesche di leader politici e sindacati. Fatto sta che il tempo scorre inesorabile, le generazioni si succedono e l’Italia resta con sempre il medesimo problema: il lavoro che manca. Nel Secondo Dopoguerra del “miracolo italiano” la pressione sul mercato del lavoro fu abbassata solo grazie all’emigrazione. Dal Sud verso Nord e, soprattutto, verso il resto del mondo. Milioni di italiani andarono a cercare fortuna in Germania, Francia, Belgio, Stati Uniti, Australia, Canada, ecc. Un fenomeno di proporzioni bibliche, senza il quale oggi ci ricorderemmo di quegli anni di forti tensioni sociali per un tozzo di pane.

Gli italiani smisero di emigrare grosso modo tra gli anni Settanta e Ottanta. Negli ultimi anni, l’emigrazione è ripartita tristemente tra i giovani più qualificati. L’economia italiana era diventata apparentemente tale da consentire a tutti di godere di condizioni di vita dignitose e sostanzialmente alla pari di quelle offerte dalle altre principali nel mondo ricco. Ed effettivamente il benessere si diffuse un po’ a tutti.

Solo che il lavoro non c’è mai stato per tutti coloro che lo abbiano realmente cercato neppure negli ultimi quaranta anni a questa parte. I dati sull’occupazione parlano da soli. L’ISTAT ci dice che a febbraio erano occupati 23 milioni 313 mila persone, dato record per l’Italia, pari al 60,8%.

Italia ultima per occupati in Europa

Il miglioramento negli ultimi anni, al netto del tonfo dovuto alla pandemia, c’è stato senza dubbio. Dal gennaio del 2014, cioè quasi un decennio fa, risultano essersi creati oltre un milione e mezzo di posti di lavoro. Ma gira e rigira non superiamo mai abbondantemente la soglia dei 23 milioni di occupati. Questa è la stessa raggiunta prima della crisi finanziaria mondiale del 2008. E, soprattutto, restiamo ultimi in Europa per tasso di occupazione tra i residenti di età compresa tra 20 e 64 anni. Siamo al 65% contro una media UE del 75%. Se dovessimo tendere ai livelli europei, avremmo più di 26 milioni di occupati, quasi 4 milioni in più di oggi.

Non è difficile capire dove manchino questi lavoratori: al Sud. Qui, l’occupazione si aggira intorno al 45% o poco sopra, con punte minime del 43% in Sicilia, dato record negativo di tutta l’Unione Europea. Nel Nord Europa, il tasso di occupazione supera l’80%. In Germania, prendendo come riferimento la popolazione tra 15 e 64 anni, si attesta al 76%, 15 punti in più dei livelli italiani. Da noi, poi, il lavoro manca anche tra le donne, i cui tassi di occupazione si aggirano ancora intorno al 50%. Abbiamo anche tra le maggiori percentuali di sovra-qualificazione tra le lavoratrici in Europa, dietro solo a Malta e Cipro.

Cosa significa quest’ultimo dato? Le donne italiane svolgono mansioni meno qualificate rispetto al proprio percorso di studi e professionale più che in quasi tutto il resto d’Europa. E veniamo al problema dei problemi che, state pure freschi, la Festa dell’1 maggio non affronterà neanche quest’anno.

Il lavoro manca per molte ragioni. L’assistenzialismo non aiuta a far alzare tanti giovani dal divano, ma sarebbe sbagliato pensato che la colpa fosse solo di una parte del mercato. La verità è che in Italia il lavoro non è appetibile e, infatti, molti neanche lo cercano, vuoi perché scoraggiati, vuoi perché si trova spesso solo occupazione poco qualificata e scadente anche sul piano retributivo.

Bassi stipendi patologia italiana

L’Italia non ha puntato sull’innovazione per crescere, bensì quasi esclusivamente sul fattore prezzo. Un po’ come se fosse una piccola Cina senza averne (per fortuna) le caratteristiche socio-demografiche. Questo ha portato le nostre imprese a produrre in comparti dell’economia esposti alla concorrenza agguerrita dei paesi emergenti. Per tenere un minimo testa, hanno dovuto comprimere i costi, tra cui principalmente i salari. Bassi salari non attirano i lavoratori. Tra il 1990 e il 2020 – dati OCSE – gli stipendi medi in Italia sono diminuiti del 2,8% in termini reali. Unico caso nel mondo avanzato.

Oltretutto, le nuove generazioni studiano, sono qualificate più che in passato e non vogliono finire a servire tavoli al ristorante tutta la vita. Hai voglia di parlare che il “turismo è il nostro petrolio” se poi si concretizza nella creazione di posti di lavoro “poveri”. Stiamo volutamente estremizzando il nostro ragionamento per arrivare all’amara conclusione che la Repubblica, sin da quando è nata, non è stata in grado di adempiere alla sua primissima affermazione costituzionale, secondo cui sarebbe “fondata sul lavoro”. Ma se siamo ultimi in classifica in Europa, il fondamento è puramente teorico, cioè retorico.

Oggi, il governo Meloni varerà alcune misure per cercare di stimolare le assunzioni: maggiore flessibilità dei contratti a termine e ulteriore taglio del cuneo fiscale. In sé, scelte potenzialmente positive per l’occupazione. Basteranno a far salire l’occupazione verso i livelli europei? Da sole, non di certo. La flessibilità, ad esempio, aiuta a sprigionare quelle forze che rimangono spesso ingabbiate nella tela della burocrazia.

La riduzione dei contributi previdenziali stimola l’occupazione tra le imprese che avrebbero bisogno di manodopera per produrre. Ma più in generale serve il salto di qualità al nostro mercato del lavoro: nuovi investimenti, innovazione di prodotto e ricerca di nuovi comparti in cui produrre. Lo stato può offrire il suo contributo potenziando le infrastrutture e abbattendo la pressione fiscale. Senza, rischiamo di oscillare sempre attorno alla barriera dei 23 milioni di occupati.

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