Sul debito pubblico italiano s’è scritto tanto, forse anche troppo. Fiumi di inchiostro per spiegarci l’evoluzione di un’Italia, che nei mitici anni Ottanta ipotecava il futuro dei figli, se non anche di nipoti e pronipoti, scialacquando risorse come nessun’altra economia occidentale in quel periodo. Quel che è mancato sino ad oggi, però, è stato il punto di vista di chi quel debito è costretto a portarlo sul groppone, la voce di chi ha subito le scelte scellerate di quegli anni.

E ci ha pensato Francesco Vecchi a farlo emergere, a nome di quella generazione che oggi si dirige verso i 40 anni e che è nata proprio ai tempi del “sacco”, in cui gli italiani consumavano risorse pubbliche in eccesso, confidando ingenuamente che l’era della “Milano da bere” non sarebbe finita mai, che non avrebbe presentato il conto.

La crisi del debito pubblico con l’euro non rallentato la corsa, ecco i numeri

Vecchi è un giornalista e conduttore Mediaset, noto per trasmissioni come “Mattino Cinque”. Eloquente il titolo del suo libro: “I Figli Del Debito – Come i nostri padri ci hanno rubato il futuro”, Edizioni Piemme. Classe 1982, rientra perfettamente nella generazione erede del disastro fiscale italico. Raggiunto da Investire Oggi, spiega di ritenere che l’Italia abbia vissuto uno spartiacque agli inizi degli anni Novanta, quando la sbornia del debito pubblico ha iniziato a lasciare il posto ai mal di testa. Paradossalmente, continua, è stato in quel periodo che abbiamo registrato i nostri primi avanzi primari, cioè le entrate dello stato iniziavano a superare le spese, al netto degli interessi.

Giovani oggi pagano spese dei padri

Alla domanda sulle ragioni per cui i mercati finanziari, anziché premiarci, abbiano mostrato sfiducia nei confronti dei nostri governi, Vecchi offre un’altra interpretazione: l’economia è andata male, proprio perché dall’eccesso di spesa si è passati all’eccesso di entrate, con la conseguenza che nel tempo la generazione nata tra gli anni Settanta e Ottanta ha dovuto pagare più tasse dei servizi ricevuti, per cui lo stato ha tolto a chi ha messo piede nel mercato del lavoro dagli anni Novanta in poi, al fine di ripagare i debiti accumulati da genitori e nonni nei decenni precedenti.

A tale proposito, Vecchi nota come la prima voce di spesa ad essere stata tagliata per risanare i conti pubblici sia stata la scuola, mentre ha continuato a correre quella delle pensioni. In sostanza, le nuove generazioni sono state sacrificate in pieno per mantenere i diritti delle più anziane. E la colpa che il giornalista addita agli italiani di 30-40 anni fa è stata di credere e pretendere che i diritti fossero slegati dall’andamento dell’economia, che servizi come sanità e pensioni potessero essere erogati indipendentemente dallo stato delle finanze statali.

Ecco perché il debito pubblico italiano con questi numeri ci condanna all’austerità

E i giovani di oggi? Non hanno forse una mentalità del tutto consapevole sui conti pubblici, ma al contempo hanno messo in discussione i diritti acquisiti dei genitori, percependoli come privilegi e notando come questi si pongano in contrasto con le loro opportunità. E diversamente dalle generazioni passate, si mostrano più disponibili ad accettare condizioni socio-economiche, specie sul mercato del lavoro, nettamente meno favorevoli. Ma l’autore del libro ritiene che una presa d’atto completa del problema del debito sia inibita proprio dai tagli alla scuola, che contribuiscono a tenere bassa l’educazione finanziaria in Italia. In questo, una sorta di continuità con gli anni Ottanta, quando il debito pubblico non era al centro del dibattito nazionale, semplicemente perché non se ne parlava nelle alte sfere. “In tutto il decennio, solamente per 50 volte compare l’espressione ‘debito pubblico’ nelle prime pagine del Corriere della Sera”, ci svela.

Sovranismo ed euro

E il “sovranismo”? Vecchi riconosce che la gente abbia ragione a lamentare che i partiti, una volta inviati in Parlamento, non siano in grado di ottemperare alle promesse, dovendo dare conto a Bruxelles. Tuttavia, crede che non sia l’euro il problema, che semmai esso abbia messo a nudo le criticità italiane, mascherate con la lira dall’alta inflazione, tanto per fare un esempio. E, dunque, la sovranità nazionale ce l’hanno limitata “quelli che si sono spazzolati via il Paese in quegli anni”. Questo non significa, aggiunge, che l’euro non presenti esso stesso qualche falla. Non si spiega come sia possibile che la Germania si opponga agli Eurobond, soluzione ai problemi dello spread, cioè anche alla sostenibilità dei debiti sovrani.

La sua idea sarebbe la seguente: mutualizzare i debiti fino al 60% del pil, il limite massimo tollerato dal Patto di stabilità. In questo modo, solo per la quota eccedente gli stati risponderebbero sui mercati in autonomia, mentre per quella che gli stessi tedeschi riconoscono essere nei limiti della norma si metterebbero insieme le forze e – sul punto l’autore non sembra nutrire dubbi – i rendimenti esitati da questi titoli non sarebbero granché diversi da quelli dei Bund attuali. In poche parole, la Germania non ci perderebbe e le paure dei tedeschi di rimetterci soldi sarebbero infondate. Del resto, senza una politica monetaria accomodante sarebbe impossibile abbattere il debito pubblico italiano, chiosa.

Perché vale la pena leggere il libro? Come anticipato, ci fornisce il punto di vista di una generazione alla quale è stato tolto per troppo tempo persino il diritto di mettere in discussione il sistema che ha generato questo mostro. E ci aiuta a capire indirettamente come ragioni chi abbia vissuto sinora la propria esistenza, in tutto in stragrande parte, sotto la cappa della crisi. Come agisce e pensa quella generazione che non ha mai avuto il piacere di sentire attuali parole come “boom”, “crescita” e ha dovuto sempre subire espressioni come “crisi economica”, “crisi del debito”, “stringere la cinghia” e “risanare i conti pubblici”? Chissà che Vecchi non approfondisca anche questi aspetti in un suo prossimo libro.

Se il debito pubblico italiano preoccupa persino con i tassi a zero

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