Se la Corea del Nord resta lo stato più comunista del mondo, non significa che persino a Pyongyang non abbiano attecchito forme incipienti di capitalismo, come testimoniamo le numerose immagini pubblicate di recente dalla stampa internazionale, Reuters per prima. In esse, vengono ritratte scene di vita del tutto simili a quelle occidentali, con negozi pieni di clienti e scaffali colmi di beni di svariata qualità. Questo proliferare del consumismo è cosa recente e risale all’arrivo alla presidenza di Kim Jong-Un alla fine del 2011, quando il non ancora trentenne figlio di Jong-Il succedeva alla morte del padre.
No, non vi è in atto alcun cambiamento di paradigma in Corea del Nord, ma il giovane leader ha subito compreso che l’economia nordcoreana ha bisogno del settore privato per crescere e che senza crescita non vi sarebbero nemmeno le risorse per finanziare l’imponente programma militare del paese, tra cui i piani nucleari, al centro delle forti tensioni internazionali di queste settimane, specie con gli USA di Donald Trump.
Nessuna legge liberale in fatto di produzione e di proprietà privata dei mezzi di produzione è stata varata. Il sorgere di numerose piccole attività imprenditoriali nella capitale (e non solo) è stato un processo spontaneo, che il regime comunista si è limitato a tollerare, segnalando di non volere reprimere simili iniziative. E così, potrebbe fare impressione scoprire che decine di persone vengano fotografate in fila per acquistare un cosiddetto smartphone “Pyongyang”, quasi certamente fabbricato altrove, come in Cina, ma al quale viene apposto un marchio locale per ragioni di marketing politico. (Leggi anche: Corea del Nord tra rischio carestia e piani nucleari)
Minacciate relazioni commerciali con la Cina
Grazie a questa tolleranza di forme iniziali di capitalismo, l’economia nordcoreana è andata meglio sotto Kim Jong-Un che negli anni immediatamente precedenti alla sua presidenza. Il pil è cresciuto del 3,9% nel 2016, il tasso più alto da 17 anni.
La Corea del Nord commercia quasi esclusivamente con la Cina, registrando lo scorso anno un disavanzo commerciale complessivo di circa 900 milioni, il 3% del pil nazionale. In pratica, esporta meno di quanto importi e le cose potrebbero peggiorare già da quest’anno, considerando che Pechino ha aderito dalla fine di febbraio alle sanzioni ONU contro il carbone di Pyongyang, comprandone ad oggi il 75% in meno su base annua. Le esportazioni di carbone valgono un terzo del totale nello stato nordcoreano. (Leggi anche: Kim Jong-Un, chi è il dittatore nordcoreano che minaccia la guerra nucleare)
Progressi economici a rischio
Minori esportazioni implicano minori esportazioni sostenibili, data la carenza di valuta straniera per gli acquisti. Quel poco di benessere in più che le famiglie nordcoreane avrebbero percepito negli ultimi anni potrebbe svanire in breve tempo, come insegna il caso del Venezuela, dove il taglio delle importazioni, unitamente a un crollo della produzione interna, ha portato al dilagare della miseria.
Gli USA potrebbero mettere nel mirino non solo le banche che intrattengono affari con Pyongyang, com’è già accaduto ai danni di un istituto cinese, bensì pure il lavoro forzato esportato dal regime. Sì, dovete sapere che la Corea del Nord persegue forme di schiavitù, costringendo migliaia di suoi cittadini a prestare lavoro alle dipendenze di società straniere all’estero e in condizioni di vita disumane. A beneficiarne sono, in particolare, Russia e Cina. (Leggi anche: Corea del Nord: opzione “nucleare” USA che fermerebbe davvero Kim Jong-Un)