Non è la prima volta che gli Stati Uniti comminando alti dazi contro la Cina. Già alla fine del 2015, agli sgoccioli dell’era Obama, Washington prese di mira l’acciaio di Pechino. E giustamente, colpendo il dumping del Dragone ai danni del resto del mondo con sussidi a pioggia alle sue industrie. Nei giorni scorsi è stata la volta delle auto elettriche, più in generale della filiera legata alla transizione energetica. Dalle batterie ai semi-conduttori, dalle celle per pannelli solari fino a siringhe e gru per scarico di merci dalle navi, l’amministrazione Biden ha deciso di impennare i dazi americani.

Solo che questa mossa arriva in una fase già claudicante per la globalizzazione. Con la pandemia erano vacillati i corollari su cui essa aveva poggiato per decenni, in primis la libera circolazione di merci e persone. Le guerre – russo-ucraina e Israele-Hamas – hanno fatto il resto. Neppure la circolazione dei capitali è più sicura.

Globalizzazione avversata ad inizio millennio

Gli anni Duemila iniziarono con i “no global” sulla cresta dell’onda. Ve li ricordate? A Genova andò in scena il loro lato più deteriore e balordo. La città fu messa a ferro e fuoco da centinaia di teppisti che offrirono uno spettacolo agghiacciante e finanche controproducente rispetto alle ragioni ideali che sostenevano. Il mondo perlopiù legato alla sinistra nel mondo diceva no alla globalizzazione, in quanto foriera di diseguaglianze all’interno degli stati ricchi e di sfruttamento ai danni delle economie più povere.

Un quarto di secolo dopo, solo in parte le cose sono andate come paventate. Le diseguaglianze all’interno delle economie ricche di allora sono aumentate di sicuro, ma le economie più povere in generale si sono sviluppate. E, al di là di tanta retorica disancorata dai dati, noi occidentali non siamo più poveri di prima. Fatta eccezione per l’Italia, in cui gli stipendi dei lavoratori in termini reali sono scesi negli ultimi trenta anni, nessuna economia avanzata può affermare di stare peggio rispetto a 20-30 anni fa.

Più concorrenza e tecnologia diffusa

Ma la globalizzazione è stata percepita negativamente fin da subito, non fosse altro perché ha comportato la fine delle certezze individuali e di “classe”. L’apertura dei mercati ha posto fine a molte rendite di posizione, ha spinto le imprese alla necessità di innovarsi per restare competitive, gli stessi lavoratori hanno dovuto destreggiarsi tra la fine del posto sicuro e la concorrenza di colleghi stranieri a buon mercato. Ciò ha generato ansia, frustrazione, rabbia, perdita di identità sociale, ecc.

Tuttavia, la globalizzazione ha permesso a tutti di avere (quasi) tutto. Un esempio è il boom del turismo: i pernottamenti internazionali sono quadruplicati rispetto ai livelli del 1990. Non perché prima non fossimo curiosi di girare il mondo, bensì per l’apertura delle frontiere e dei mercati praticamente ovunque, nonché per la liberalizzazione del settore aereo. La tecnologia è nelle nostre case senza che ci riponiamo la giusta attenzione. Dalle smart tv agli smartphone, dai notebook ai PC, passando per iPad, lavastoviglie, climatizzatori, robot da cucina, navigatori, internet, ecc. Riusciamo a comunicare in tempo reale con chicchessia, ovunque si trovi. Era impensabile tempo fa, anzi era considerato un sogno.

Verso costi di produzione in crescita

La vita di oggi è enormemente più semplice di qualche decennio fa, eppure non siamo in grado di apprezzarla. Diamo per scontato che sia così. Invece, lo si deve proprio alla globalizzazione, che ha consentito la produzione massiva di prodotti a basso costo, accessibili praticamente a chiunque. Una persona che oggi in Occidente si definisca come relativamente povera, ha a disposizione una tecnologia ben più evoluta di quella di cui un ricco avrebbe disposto 20-30 anni fa.

La fine della globalizzazione non sarà indolore proprio per coloro che sperano possa avvantaggiarli. I mercati gradualmente si stanno chiudendo, per cui la concorrenza si restringe progressivamente. Saranno felici le imprese, che fiutano di poter aumentare i profitti senza praticamente fare nulla. Ma se ciò è vero, significa che i consumatori saranno chiamati a pagare di più per comprare i loro prodotti o godere dei servizi erogati. Si dirà che, in cambio, ci saranno maggiori posti di lavoro. In realtà, ciò eventualmente accadrà soltanto nei settori beneficiari della minore concorrenza. Gli altri settori vedranno verosimilmente ridurre i posti di lavoro per effetto della distruzione di ricchezza generata dalla chiusura dei mercati.

Occupazione aumentata con globalizzazione

Le cose stanno così: la fine della globalizzazione comporta un ritorno al passato. Le imprese meno esposte alla concorrenza faranno più profitti e potranno finanche assumere di più. Poiché a pagarne il prezzo saranno i consumatori, la loro perdita di benessere comporterà la riduzione dei posti di lavoro in tutti gli altri settori. Del resto, se spendo di più da qualche parte, dovrò risparmiare in altre. E se le imprese che prima producevano in economie emergenti, rimpatrieranno le loro filiere produttive per effetto della “guerra” commerciale già in atto o di veri divieti normativi, i costi di produzione non faranno che salire.

E anche qui esiste una menzogna che viene spacciata per verità, ossia che la globalizzazione abbia ridotto i posti di lavoro. Al contrario, l’occupazione è cresciuta ovunque nel mondo. Persino in Italia, dove resta relativamente bassa, è salita negli ultimi decenni. Lavorano più persone, anche se lamentano di non guadagnare abbastanza per vivere. E la questione è certamente seria. Il fenomeno dei “working poors” è diventato il vero malessere della società occidentale. In pratica, lavori e rischi di essere ugualmente povero per via delle retribuzioni insufficienti.

Bassi salari provocati da scarsa istruzione

Tuttavia, più che essere un problema scatenato dalla globalizzazione, esso riflette spesso la scarsa specializzazione produttiva di alcune economie, in particolare.

I lavoratori meno istruiti in Occidente se la devono vedere con i concorrenti cinesi, indiani, vietnamiti, ecc., che costano molto meno. Naturale che non possano ambire a paghe consistenti. I governi hanno gestito male il passaggio alla globalizzazione, ignorando la necessità di potenziare le conoscenze e le specializzazioni dei cittadini-lavoratori.

Come nell’Ottocento e fino alla prima metà del Novecento fu la lotta all’analfabetismo il grande obiettivo per sradicare la povertà, adesso s’impone un potenziamento del grado di istruzione per non lasciare nessuno indietro. Non basta saper leggere e scrivere, occorre anche possedere una conoscenza approfondita di un argomento/lavoro. Insomma, bisogna specializzarsi. L’Italia è tra i Paesi che meno hanno compiuto questo passo e i risultati (in negativo) si notano: bassi salari, bassissima occupazione femminile e giovanile, scarsa crescita.

Globalizzazione freno per inflazione

I sintomi di quanto sta già avvenendo, li percepiamo con il ritorno dell’inflazione. Pensavamo che fosse un fenomeno sradicato, anzi temevamo persino una sorta di perenne deflazione strisciante per l’impossibilità delle imprese di alzare i prezzi, data l’agguerrita concorrenza sui mercati internazionali. E’ bastata una pandemia per farci capire che non sarebbe stato così. La guerra ci ha messo il carico da novanta. Rischiamo di lavorare meno e di spendere di più per comprare prodotti e servizi meno accessibili a buona parte della popolazione. E lì sì che parleremo di disuguaglianze. La globalizzazione è finita? Viva la globalizzazione!

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