E’ un buon momento per il principe Mohammed bin Salman. Messosi alle spalle lo stigma internazionale assegnatogli dal caso Kashoggi, il cambio delle alleanze gli sta fruttando tanta attenzione e centralità in Asia. L’Arabia Saudita non è più l’alleato di ferro degli Stati Uniti e, per estensione, dell’Occidente. Anzi, Riad sta allontanandosi vistosamente da Nord America ed Europa per stringere accordi di ampio respiro con Cina e Russia. Non lo impone solo la contingenza politica, bensì soprattutto le prospettive future.

La Cina è già la prima importatrice di petrolio al mondo, mentre l’Arabia Saudita è la prima esportatrice della materia prima. Nei prossimi anni, il consumo giornaliero salirà a 16 milioni di barili presso l’attuale seconda economia mondiale, dietro solo agli Stati Uniti.

Sotto questa luce vanno letti i recenti sviluppi dell’OPEC. Il cartello, guidato informalmente proprio dal regno, ha ridotto la produzione di petrolio per tenere alte le quotazioni internazionali. Affinché le sue decisioni siano più efficaci possibili, sono state concordate con altri paesi produttori esterni, tra cui la Russia di Vladimir Putin, secondo produttore mondiale dietro solamente gli Stati Uniti. Grazie a questo accordo, il Golfo Persico sta navigando sui petrodollari. E allo stesso tempo dà una mano a Mosca, che ha bisogno di vendere il suo greggio a prezzi quanto più alti possibili per finanziare la guerra di occupazione in Ucraina.

Guerra israelo-palestinese rincara quotazioni petrolio

E adesso è arrivata un’altra guerra, scatenata da Hamas contro lo stato di Israele con l’attacco sanguinario e barbaro del 6 ottobre scorso. Le tensioni in Medio Oriente hanno galvanizzato ulteriormente il mercato del petrolio. Se il Golfo Persico chiudesse alla navigazione delle petroliere, un quinto del greggio prodotto ogni giorno in tutto il mondo dovrebbe transitare altrove o resterebbe bloccato. I prezzi esploderebbero forse a nuovi massimi storici ad oggi impensabili.

Ed è così che il petrolio (Brent) è schizzato dall’attacco di 9 dollari al barile. Si vendeva sui mercati intorno a 84 dollari, mentre venerdì scorso saliva sopra 93 dollari. Non serve un genio della finanza per capire quale effetto benefico questo boom stia avendo sull’Arabia Saudita. Il regno ha estratto nel mese di settembre 8,975 milioni di barili al giorno. Se ipotizziamo che la produzione resti invariata anche ad ottobre, in appena dieci giorni avrebbe incassato dalla vendita qualcosa come oltre 800 milioni di dollari in più. Su base mensile, il rincaro gli frutterebbe sui 2,5 miliardi, circa 30 miliardi all’anno.

Arabia Saudita incassa +2,5 miliardi al mese

I conti sono più complicati da fare. Non è detto che l’intero rincaro sia addebitabile alla guerra tra Israele e Hamas. C’entrano molto anche le previsioni sulla domanda e sull’offerta nel medio termine. Comunque sia, l’Arabia Saudita e il suo principe ereditario hanno motivo per sorridere. E’ vero che ad agosto le esportazioni di petrolio sono scese ai minimi da 28 mesi, ma ciò è stato frutto di una precisa scelta di Riad. Con 5,58 milioni di barili al giorno venduti all’estero, il regno incassa alle quotazioni attuali circa 15,5 miliardi di dollari al mese, al netto delle vendite domestiche.

L’Arabia Saudita ha bisogno di tenere le quotazioni molto alte. Sebbene riesca a produrre a costi di pochi dollari al barile, per avere il bilancio statale in pareggio le serve vendere il petrolio a non meno di 85 dollari. Gran parte delle entrate pubbliche, infatti, derivano proprio dal settore oil & gas. Questo contribuisce a spiegare anche la ritrosia con cui il principe ribatte alle richieste dell’Occidente di calmierare i prezzi. L’anno prossimo, si stima che il “breakeven” scenda intorno ai 78 dollari. Ciò dovrebbe allentare la pressione sul mercato e consentire a Riad di cedere qualcosina agli (ex?) alleati occidentali.

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