Il 12 maggio scorso, il cambio euro-dollaro era sceso sotto 1,04, toccando il valore più basso da venti anni a questa parte. Ieri, risultava risalito sopra 1,07, ai massimi da un mese. Nel mezzo ci sono state le previsioni nere di diversi analisti, secondo i quali il cross finirà sulla parità o persino sotto di essa entro l’anno. Alla base di queste stime vi è sempre l’elevato grado atteso di divergenza monetaria tra Federal Reserve e BCE. La prima ha iniziato ad alzare i tassi d’interesse sin da marzo e già lo ha fatto due volte per complessivi 75 punti base o 0,75%.

La seconda è stata la bella addormentata nel bosco tra le grandi banche centrali.

Perché il cambio euro-dollaro risale

Negli ultimi giorni, però, il mood sui mercati appare parzialmente mutato. A Francoforte è scattato l’allarme proprio sul cambio euro-dollaro troppo basso. Il board ha preso atto che rinviare sine die il rialzo dei tassi equivarrebbe ad accentuare le pressioni inflazionistiche, deprimendo la moneta unica e aumentando così i costi dei beni importati. Ed ecco che svariati membri come l’austriaco Robert Holzmann, il finlandese Olli Rehn e lo spagnolo Pablo Hernandez de Cos hanno fatto presente, pur con toni l’uno diversi dagli altri, che entro massimo luglio la stretta monetaria sarà avviata. Il governatore Christine Lagarde è stato ancora più chiaro e ha prospettato la necessità di agire e di non rinviare più l’inevitabile. Anzi, ha indicato entro settembre la tempistica per l’uscita dall’era dei tassi negativi.

Negli USA, invece, si registrano le prime dichiarazioni controcorrente. James Bullard, governatore della FED di Saint Louis, ha affermato, addirittura, che “ad un certo punto nel 2023” potrebbe rendersi necessario “un taglio dei tassi“. Il suo collega Raphael Bostic di Atlanta ha prospettato, invece, una pausa per la stretta già nel mese di settembre.

Il mercato sconta ancora tassi d’interesse al 3% per fine anno dall’1% attuale. Questo implica che vi sarebbero aumenti per altri 200 punti base o 2%. E ciò sarebbe possibile se in almeno tre occasioni sulle prossime cinque riunioni la FED alzasse i tassi di almeno mezzo punto percentuale alla volta e nelle restanti due di un quarto di punto alla volta. Ma questo scenario escluderebbe una pausa sui tassi, come inizia a serpeggiare tra le richieste di parte del board.

Il rialzo dei tassi spaventa

Dunque, il cambio euro-dollaro si è rafforzato sia perché la BCE ha posto fine, pur non ufficialmente, alle sue ambiguità sui tassi, sia perché la FED si mostra più incerta sulle prossime mosse. Ma c’è poco da gioire. Abbiamo di fronte la più importante banca centrale del mondo che ancora una volta si mostra incapace anche solo di prospettare credibilmente un rialzo dei tassi di qualche punto percentuale. Già all’1% c’è aria di possibile marcia indietro. E tutto questo con un’inflazione americana all’8,3% in aprile. In sostanza, la prima economia mondiale non sarebbe in grado di reggere tassi reali meno negativi del 6-7%?

Ricordiamo che la FED non fu capace di alzare i tassi sopra il 2,5% con la stretta culminata agli inizi del 2019. In quel caso, furono le pressioni della Casa Bianca di Donald Trump a far virare il governatore Jerome Powell. Fatto sta che fino al 2007, prima della crisi finanziaria mondiale, i tassi FED erano al 5,25%, cioè del 3% sopra l’inflazione. Adesso, stanno al 7,3% sotto di essa e già si teme che l’economia americana rischi di entrare in recessione. Un pessimo motivo alla base della risalita del cambio euro-dollaro. Non è detto che duri. Se Sparta piange, Atene non ride. L’Eurozona sembra ancora meno in grado di fronteggiare una stretta sui tassi, divisa com’è sul piano dei conti pubblici tra Nord e Sud Europa e con una guerra alle porte che le infligge grosse perdite economiche.

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