I politici italiani “scoprono” con qualche decennio di ritardo che i salari nel nostro Paese siano diminuiti dal 1990 in termini reali e risultino ormai tra i più bassi in Europa. Nei giorni scorsi, invece, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, lamentava altre cifre sul mercato del lavoro, anch’esse drammatiche. Sappiamo già che siamo tra i paesi OCSE con il minore tasso di occupazione, insieme a Grecia e Turchia. Meno di 60 persone su 100 in età lavorativa hanno un’occupazione, mentre in Germania più di 76.

La media europea è di oltre 68 su 100. A fronte di questa cifra, capiamo quanto fuorviante possa apparire il solo tasso di disoccupazione, ufficialmente sceso all’8,4% in aprile, una percentuale affatto preoccupante in una congiuntura disgraziata come quella degli ultimi anni.

2,6 milioni non cercano lavoro in Italia

Ma Visco ha acceso i fari su un altro dato: il numero delle persone in età lavorativa e capaci di lavorare, ma che un’occupazione nemmeno la cercano, ammontano in Italia a 2,62 milioni. In pratica, superano il numero dei disoccupati stessi, pari a 2,3 milioni. A titolo di confronto, questi inattivi in Francia sono solo 763.000 e in Germania 829.000. Parliamo di paesi con rispettivamente +6 e +22,3 milioni di occupati rispetto all’Italia. In altre parole, negli altri paesi lavorano più persone e ci sono in giro minori inattivi.

Il mercato del lavoro in Italia risulta così essere tra i peggiori in tutta l’area OCSE. Da cosa può dipendere? Come un cane che si morde la coda, i bassi salari finiscono per disincentivare all’ingresso nel mondo del lavoro. A sua volta, la bassa occupazione fa ricadere sulle spalle dei pochi lavoratori il peso di un intero sistema da mandare avanti. In pochi devono pagare le tasse per tutti. E non a caso il cuneo fiscale nel nostro Paese è tra i più alti in Europa.

Ma c’è anche un problema di scolarizzazione. L’Italia guida anche le classifiche internazionali per essere uno dei paesi con la minore percentuale di laureati e il più alto tasso di analfabetismo funzionale. Lavoratori poco qualificati, spesso privi di specializzazione, devono accontentarsi di stipendi bassi a vita e di scarse opportunità occupazionali. In questo contesto, il reddito di cittadinanza ha sì offerto sollievo proprio a questa fascia di cittadini più in difficoltà, ma allontanandoli ulteriormente dal mercato del lavoro.

Distanze siderali tra Nord e Sud

E’ evidente che quando parliamo d’Italia, come spesso accade, ha poco senso. Esiste un Nord produttivo e in cui i tassi di occupazione si collocano ai livelli europei. Poi, c’è un Sud arretrato, dove a lavorare è meno di un lavoratore su due tra 15 e 64 anni. Tra le donne, le percentuali sprofondano finanche sotto il 40%. Queste cifre, tuttavia, mascherano il tristemente noto fenomeno del lavoro nero, che nel Meridione è un fatto patologico e strutturale. Centinaia di migliaia, se non milioni di persone lavorano anche per l’intera esistenza irregolarmente, non godendo di alcun diritto e non versando un solo contributo.

I 2,6 milioni di italiani che non lavorano, pur teoricamente essendone in grado, né si attivano per cercare un’occupazione, sono il vero indice malato del nostro mercato. Il loro numero andrebbe monitorato ancor più che quello strettamente legato alla disoccupazione. Finché resteremo inchiodati attorno ai 23 milioni di occupati, che eppure segna un record storico nel nostro Paese, è il segnale che malattia di cui soffre l’economia italiana non sia stata lenita dalle cure somministratele, ammesso che abbiamo un dottore con tanto di ricetta. Servono almeno 2 milioni di posti di lavoro per far parte davvero dell’Europa.

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