Era fine settembre quando sembrava che il prezzo del petrolio si stesse dirigendo verso i 100 dollari. Pochi giorni più tardi, l’attacco sanguinario di Hamas contro lo stato di Israele. Migliaia di morti, tensione geopolitica alle stelle in Medio Oriente e il timore che le quotazioni del Brent potessero impennarsi ai nuovi massimi storici. Stamane, si aggirano sotto 76,50 dollari. In due mesi e mezzo, il greggio ha perso 20 dollari al barile, oltre un quinto del suo valore di mercato.

Petrolio giù anche con taglio offerta OPEC

Qualcosa è andato storto per i produttori.

L’OPEC, che è il cartello che riunisce tredici paesi esportatori e che nei fatti è guidato dall’Arabia Saudita, ha cercato in tutti i modi di lanciare un segnale “bullish” ai mercati. Riad ha confermato ed esteso a tutto il primo trimestre dell’anno prossimo il taglio volontario dell’offerta da 1 milione di barili al giorno. Dall’estero, la Russia collabora da anni con l’organizzazione e ha messo sul piatto il suo taglio di mezzo milione di barili al giorno, ma comprensivo anche dei prodotti derivati. Gli altri parteciperanno complessivamente per 700 mila barili al giorno.

Rischio recessione Europa e Stati Uniti

Ciononostante, il petrolio non ha retto e ha accusato un ulteriore calo sui mercati internazionali. Sempre l’OPEC ha annunciato la scorsa settimana che da gennaio accoglierà il Brasile. Questi non parteciperà al taglio dell’offerta ed estrae quotidianamente 3,2 milioni di barili. Sarà uno dei principali produttori dopo Arabia Saudita, Iraq e alla pari con l’Iran. Con l’ingresso dello stato sudamericano il cartello si rafforzerà anche dal punto di vista geopolitico, ma diventerà ancora più instabile.

Se da un lato l’offerta di petrolio viene frenata da un gruppo di produttori, dall’altro la domanda non sembra fare faville. L’economia mondiale sta rallentando vistosamente.

La Cina è alle prese con una grossa crisi immobiliare, la quale starebbe colpendo i consumi interni, come segnala l’ingresso nella deflazione. L’Europa è a rischio recessione a causa della stretta sui tassi di interesse per combattere l’alta inflazione dell’ultimo anno e mezzo. Gli Stati Uniti continuano a crescere, trainati dai consumi domestici, ma anch’essi sarebbero al culmine della congiuntura.

Carta Venezuela e cartello diviso

Tra l’altro proprio gli Stati Uniti stanno cercando di reagire alle mosse dell’OPEC. In ottobre, la Casa Bianca ha allentato le sanzioni contro il Venezuela di Nicolas Maduro con l’obiettivo di consentirgli di aumentare le estrazioni di petrolio. Caracas dispone delle più vaste riserve petrolifere al mondo sinora accertate (oltre 300 miliardi di barili), ma non riesce a sfruttarle per la gravissima crisi economica in cui è sprofondata nell’ultimo decennio. Per quanto i risultati al momento non si stiano affatto vedendo, quella venezuelana resta una carta che il governo americano tenta di giocarsi nell’impresa di contenere il potere di sauditi e russi.

Teniamo anche conto che dal picco di settembre il petrolio costa meno anche per l’effetto cambio. Da allora il dollaro ha perso un po’ di terreno contro le altre principali valute mondiali. In teoria, ciò avrebbe dovuto sostenere le quotazioni della materia prima, ma non è accaduto. E’ il segno più evidente di una crisi che si respira sui mercati e che supera i timori per le tensioni geopolitiche. Anche perché l’OPEC al suo interno è tutt’altro che unita. A parte membri come l’Arabia Saudita, gli altri o tagliano l’offerta a malincuore (vedi Emirati Arabi Uniti) o non possono permettersi di farlo (Iran, Iraq, ecc.) per la necessità di massimizzare le esportazioni in dollari.

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