Il taglio delle pensioni retributive più alte non deve essere più un tabù

La spesa per le pensioni in Italia resta la seconda più alta in Europa e in buona parte per mantenere privilegi ingiustificabili, alla luce della gravissima crisi economica in corso e delle disparità tra generazioni.
5 anni fa
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Sgombriamo il campo da una “fake” news: le pensioni in Italia non saranno a rischio a partire da luglio. Il dibattito è da ricondursi a una frase che si è fatto sfuggire un esponente “grillino” del governo e che è stata ripresa dai media per dipingere la situazione in cui verserebbero le casse dello stato senza aiuti europei, magari del MES. Questa affermazione risulta priva di ogni fondamento e sarebbe opportuno che nessun direttore la sfruttasse per scrivere facili titoli allarmistici sui giornali.

Ma le pensioni restano un problema irrisolto dell’Italia, rappresentandone la prima voce di spesa con il 16,7% del pil loro dedicato nel 2018, compresa la componente assistenziale.

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Il taglio delle pensioni è sempre stato evocato come uno spettro nei momenti di massima crisi fiscale, pur rimasto un tabù, almeno inteso come riduzione degli assegni. Si è preferito allungare l’età pensionabile per l’impossibilità giuridica e politica di rivedere gli assegni di coloro che risultano già pensionati. In tutto, questi sono 16 milioni e percepiscono oltre 23 milioni di assegni, perché in un caso su tre capita che un pensionato benefici di almeno due prestazioni, con l’8% a beneficiarne di tre o più.

L’ingiustizia delle pensioni retributive alte

Gli assegni in passato venivano calcolati con il metodo retributivo, cioè legati alle retribuzioni degli ultimi anni, le quali quasi sempre risultavano superiori a quelle percepite negli anni di carriera lavorativa precedenti. Dunque, non vi era correlazione con i contributi versati, un fatto che ha provocato nei decenni forti squilibri di spesa, con l’Inps ad erogare prestazioni finanche del 60% superiori a quelle che sarebbero state calcolate con il metodo contributivo. A quest’ultimo tenderemo tutti in futuro, mentre in questa fase si ha un sistema di calcolo misto: retributivo per i periodi di lavoro maturati fino al 31 dicembre 1995, purché inferiori a 18 anni; contributivo per i periodi successivi.

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Poiché con il metodo retributivo mediamente gli assegni risultano più bassi, già si coglie una disparità di trattamento tra generazioni, amplificata dai versamenti frammentari dei contributi e dalle basse retribuzioni dei giovani di oggi, spesso lavoratori precari. Si rischia per molti di arrivare alla vecchiaia con assegni insufficienti per vivere, anche perché ad oggi non è stato previsto per allora un assegno minimo con cui fronteggiare i potenziali drammi sociali. Ma fa molta rabbia pensare che ancora oggi un quarto dei pensionati (24,7% nel 2018) percepisca assegni superiori ai 2.000 euro al mese, quando in Germania tale percentuale risulta di appena l’1%.

In gran parte, trattasi di assegni calcolati con il metodo retributivo, cioè non coperti dai contributi. E’ normale che mentre lo stato tassi anche l’aria per trovare quattrini e s’indebiti per tamponare le voragini fiscali createsi con la pandemia, 4 milioni di pensionati continuino a riscuotere importi così elevati e senza che abbiano avuto in passato una copertura contributiva? Se è accettabile che gli assegni più bassi vengano innalzati fino a un importo minimo per ragioni di assistenza, non lo sembra al di sopra di una soglia significativamente elevata, anche perché viene così meno la stessa natura della pensione pubblica, che dovrebbe limitarsi a garantire una vecchiaia dignitosa a tutti, non una vita da nababbo.

Il taglio necessario dell’assistenza

Se questi assegni sopra i 2.000 euro al mese, per i casi in cui – ripetiamolo – non fossero giustificati dai contributi versati, venissero tagliati in percentuale considerevole o del tutto, lo stato arriverebbe a incassare ogni anno decine di miliardi, che a quel punto destinerebbe ad altre voci di spesa più produttive, come gli investimenti, e/o al taglio delle imposte. Draconiana e indesiderabile che possa apparire, dai numeri non si scampa.

Non si può pensare di continuare a stangare chi produce ricchezza per trasferirla a una nutrita platea di persone, che conducono standard di vita sganciati dall’apporto passato o attuale al mondo del lavoro.

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Serve non solo risanare i conti pubblici, bensì pure attuare una vigorosa redistribuzione dei redditi dai consumatori ai produttori di ricchezza, ovvero premiando imprese e lavoratori, a discapito dell’assistenza, che andrebbe limitata ai casi di vecchiaia, malattia e disoccupazione temporanea ed entro certi importi. L’idea che esistano diritti acquisiti intoccabili fa parte della vecchia Italia delle vacche grasse, quando le risorse, in un certo qual modo, bastavano ad accontentare tutti. In tempi in cui vengono imposti sacrifici a ogni categoria, dovranno contribuire pure i percettori di pensioni alte, così come bisogna riconsiderare se abbia senso spendere una decina di miliardi all’anno per il reddito di cittadinanza, quando milioni e milioni di persone si barcamenano in questa crisi per sbarcare il lunario con le fatiche di un lavoro che forse non riusciranno a tenersi.

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Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
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