Dei problemi strutturali della Turchia abbiamo scritto molte volte in questi anni e ancora una volta ci tocca parlare della crisi del cambio. Ieri, la lira turca è arrivata a scambiare fino a 7,49 contro il dollaro, toccando il nuovo minimo storico. Grazie all’ennesimo e, ormai costante, intervento della banca centrale, il calo si è tramutato in un apprezzamento nelle ore successive, ma resta il fatto che quest’anno la valuta emergente ha “bruciato” un altro 17%, portando al 45% le perdite accusate in poco più di due anni.
La trinità impossibile della Turchia segnale ribassista per i bond in valuta estera
I capitali stanno fuggendo dalla Turchia, dove alla crisi economica provocata dall’emergenza Coronavirus si aggiungono criticità tutte locali, come una gestione della politica monetaria tutt’altro che idonea e indipendente dal potere politico. La banca centrale ha tagliato i tassi all’8,75%, anche se l’inflazione in aprile risultava sì scesa, ma sostando a poco meno dell’11% (10,84%). In termini reali, dunque, i tassi d’interesse turchi sono ridiventati da mesi nettamente negativi e ciò agevola il deflusso dei capitali, che si riflette nell’assottigliamento delle riserve valutarie, le quali al netto delle operazioni della banca centrale risultano scese ad appena 25 miliardi di dollari, troppo basse per un’economia esposta solo quest’anno verso l’estero per pagamenti intorno ai 170 miliardi.
Il problema turco è lo stesso da troppi anni: squilibri strutturali della bilancia commerciale, con un eccesso di importazioni che denota scarsa competitività delle imprese locali. A fronte di un cambio sempre più debole, infatti, l’inflazione galoppa e più che compensa il deprezzamento della lira.
Tassi e rischio geopolitico
Per frenare la caduta della lira, Ankara ha adottato una serie di misure che nei fatti si sostanziano come una sorta di controllo sui movimenti dei capitali. Ad esempio, alle banche turche è fatto divieto di accettare lire in pagamento da società straniere per un importo superiore allo 0,5% del loro capitale regolamentare, percentuale dimezzata rispetto all’1% fissato ad aprile, quando a sua volta era stata ridotta dal precedente 10%. In parole povere, gli investitori stranieri che detengono assets in lire non riescono a venderli per scambiare i proventi in euro, dollari, etc, né i risparmiatori domestici hanno più molte possibilità di convertire i loro risparmi in valute forti per proteggerli dall’inflazione.
Inflazione in calo anche ad aprile, ma la Turchia resta off-limits per i bond
Ma questo gioco, che dura da ormai troppo tempo, non sta funzionando più. La crisi internazionale ha accelerato la sfiducia verso la Turchia sui mercati, che ora rischia il bis della tempesta finanziaria di due anni fa, quando la banca centrale fu costretta ad alzare i tassi fino al 24% per arrestare l’attacco speculativo contro la lira, a sua volta conseguenza della sua incapacità di tenere l’inflazione sotto controllo. Se questa, a causa del crollo del cambio, dovesse rialzare la testa, interrompendo la discesa, malgrado il petrolio a 30 dollari al barile, i tassi non solo non potrebbero più essere tagliati per sostenere la ripresa dell’economia, ma si porrebbe persino l’esigenza di alzarli per contrastare i deflussi dei capitali.
Ci sarebbe una via d’uscita da questa prospettiva horror, cioè che il presidente Erdogan riallacciasse i rapporti con l’America di Trump per ottenere quello che altre grandi economie emergenti come il Messico hanno ottenuto a marzo, ossia l’inserimento nella lista della Federal Reserve per le operazioni “swap” sui dollari, un modo per far affluire valuta americana laddove è richiesta. Le tensioni geopolitiche stanno impedendo ad Ankara di godere della sufficiente fiducia della Casa Bianca per beneficiare di simili misure, le quali almeno aumenterebbero l’offerta in un paese affamato di dollari e dove uno dei canali principali del loro ingresso è rappresentato dal turismo, comparto del tutto da considerarsi andato per il breve periodo.