Tanto tuonò che piovve. Mario Draghi si è dimesso da premier dopo che il Movimento 5 Stelle non ha votato la fiducia al Senato sul Dl Aiuti. Il presidente Sergio Mattarella ha respinto le dimissioni e lo ha rimandato alle Camere, a cui il capo del governo si presenterà dopodomani per formalizzare la crisi. Il passo indietro appare difficile. L’ex governatore della BCE ha spiegato il suo gesto con la “fine del patto di unità nazionale” che aveva dato vita alla maggioranza amplissima in Parlamento.

Ma le dimissioni non sono un vero fulmine a ciel sereno per la politica italiana. Chi segue le cronache parlamentari sa che qualcosa si è rotto tra il premier e i partiti che lo sostengono/sostenevano a gennaio.

Il successo dei primi passi di Draghi

Draghi fu chiamato agli inizi del 2021 per rimpiazzare Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. L’allora premier a capo di una maggioranza “giallo-rossa” aveva perso la bussola su liti continue tra i partiti e l’incapacità di redigere il PNRR e di gestire in maniera efficiente e spedita l’iter delle vaccinazioni anti-Covid. Ma quella nomina fu accompagnata dalla promessa non scritta di tutti i partiti che egli sarebbe stato eletto presidente della Repubblica l’anno successivo.

Quasi l’intero primo anno di governo procede spedito e con successo. La campagna vaccinale va meglio delle previsioni, l’economia rimbalza oltre le attese e c’è aria di ottimismo attorno all’Italia. Con l’arrivo del 2022 le cose cambiano in fretta. I partiti fanno quello che sanno fare meglio: i pagliacci. Nel segreto dell’urna, affossano la (di fatto) auto-candidatura di Draghi al Quirinale. Segnalano di preferirgli chicchessia, persino Pierferdinando Casini, cioè il vuoto assoluto. Alla fine, s’incartano e sono costretti a rieleggere Mattarella per non umiliarsi ulteriormente dinnanzi al Paese.

La crisi del 2022

Passano pochi giorni e scoppia la guerra tra Russia e Ucraina.

I prezzi delle materie prime esplodono, soprattutto di petrolio e gas. L’inflazione, già in corsa dal 2021, accelera ai massimi dagli anni Ottanta un po’ ovunque. Le previsioni di crescita sono riviste al ribasso, il rischio di recessione avanza e le famiglie sono travolte dal caro bollette e dal carburante a 2 euro. Il governo Draghi reagisce come può, ma la crisi non è nelle sue mani. Le sanzioni dell’Occidente contro la Russia sono considerate politicamente necessarie per punire Mosca dell’invasione dell’Ucraina, ma contribuiscono ad alimentare incertezze riguardo all’approvvigionamento energetico.

Nel frattempo, la BCE si vede costretta a cambiare politica monetaria. Pone fine ad entrambi i programmi di acquisto dei bond (PEPP e QE) e questa settimana alzerà i tassi d’interesse per la prima volta dal 2011. Venuto meno il metadone di Francoforte, lo spread s’impenna e il costo di emissione del debito pubblico anche. In pochi mesi, il quadro si fa drammatico per l’economia europea e particolarmente per quella italiana.

L’addio di Draghi

Draghi avrebbe bisogno di una maggioranza coesa per andare avanti, ma con le elezioni politiche alle porte lo è sempre meno. Non vuole passare alla storia come colui sotto il quale si consumò una nuova crisi del debito, né vuole farsi crocifiggere in autunno dalle manifestazioni di protesta contro il carovita. Ha capito che la politica lo ha usato per gettarlo alla prima occasione utile. Aveva creduto che sarebbe stato oggetto di riconoscenza e persino di riverenza a Roma per avere accettato la missione quasi impossibile di tirare l’Italia fuori dalle secche di una crisi ormai secolare. Ha imparato molto in fretta che il Parlamento non è il board della BCE, che i politici italiani sono incoerenti e opportunisti per definizione e che l’opinione pubblica si stanca in fretta di chi non porta risultati tangibili.

E se la nave affonda, Draghi non vuole rimanere a bordo fino all’ultimo passeggero, non sentendosi più il capitano di un equipaggio che non controlla e di cui diffida massimamente.

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