E’ di sette dollari al barile in sette giorni il rialzo della quotazione per il Brent dopo che i ribelli Houthi nello Yemen hanno preso di mira le navi cariche di petrolio di passaggio nel Mar Rosso. Tensioni che si vanno ad accumulare in un’area del Medio Oriente diventata esplosiva negli ultimi mesi. L’impatto sui prezzi deriva dal fatto che questi attacchi costringono le petroliere a fare un giro molto più lungo per trasportare il greggio presso le destinazioni finali.

Per fortuna, dal Mar Rosso transita “solo” il 12% del greggio mondiale. Ben più gravi sarebbero le conseguenze nel caso in cui ad essere chiuso fosse lo Stretto di Hormuz, dove un quarto della produzione mondiale transita quotidianamente. E’ accaduto per pochi giorni negli anni passati, quando le tensioni tra Iran e Arabia Saudita erano salite alle stelle.

Quotazioni su, ma gli Stati Uniti le frenano

Ma il boom dei prezzi resta limitato. Da un minimo di poco più di 73 dollari al barile toccato quasi a metà dicembre, si è arrivati a poco più di 80 dollari il venerdì scorso, cioè nell’ultima seduta prenatalizia. Tanto, ma tutto sommato un aumento gestibile. E grazie agli Stati Uniti, dove le estrazioni di petrolio stanno risalendo ai massimi storici di 13,3 milioni di barili al giorno che erano stati segnati poco prima della pandemia. Da agosto, la crescita è stata di 1,25 milioni di barili al giorno. In pratica, il boom americano sta sopperendo ai tagli all’offerta decisi dall’OPEC.

Angola fuori dall’OPEC, entra il Brasile

L’organizzazione guidata dai sauditi sta cercando da oltre un anno di massimizzare i prezzi sui mercati internazionali, ma le quotazioni sono da mesi in calo per via della debole congiuntura economica mondiale. Nei giorni scorsi, un’altra notizia negativa per il cartello. L’Angola ha annunciato che da gennaio non ne farà più parte, perché l’adesione “non serve più il nostro interesse” ha affermato il ministro per l’Energia, Diamantino de Azevedo.

Lo stato africano si è visto costretto a ridurre la quota a 1,11 milioni di barili al giorno. Evidentemente, una volta che sarà uscito dall’OPEC, potrà aumentare l’estrazione.

Per quanto la crescita dell’offerta sarà verosimilmente marginale per il mercato globale, si tratta di un piccolo segno di insofferenza crescente in seno all’organizzazione. Il taglio dell’offerta aumenta sì le quotazioni in una prima fase, ma incentiva altri produttori come le compagnie americane ad aumentare la propria, finendo per frustrare gli obiettivi di chi si è addossato l’onere. Dal prossimo anno dell’OPEC entra a far parte il Brasile, un produttore ben più importante dell’Angola in termini di produzione e che, tuttavia, ha segnalato di voler aumentare e non certo ridurre la propria quota. La gestione del cartello diverrà verosimilmente ancora più problematica.

Boom petrolio negativo per inflazione

Vista con gli occhi delle economie consumatrici, l’instabilità interna all’OPEC è una buona notizia. Evita che i principali produttori mondiali di petrolio possano concordare a lungo le loro mosse per tenere alte le quotazioni. E riduce il rischio di una risalita dell’inflazione nei prossimi mesi, i cui effetti sarebbero evidentemente negativi sul piano economico e finanziario. Le banche centrali hanno smesso da poco di alzare i tassi di interesse e dovrebbero iniziare a tagliarli già tra qualche mese. Tensioni sul mercato delle materie prime rimetterebbero tutto in discussione.

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