Dopo mesi a negare l’evidenza, anche la BCE prende atto che l’inflazione nell’Eurozona non sia affatto “transitoria”. Qualche giorno fa, il finanziere fondatore di Algebris, Davide Serra, ha definito “un errore” il ritardo con cui Francoforte alzerà i tassi d’interesse nei prossimi mesi. A suo dire, avrebbe dovuto avviare la stretta monetaria già nel 2021. La Federal Reserve si è portata un po’ avanti con il lavoro, ma ancora ha tassi all’1% con un’inflazione negli USA all’8,3% in aprile.

Nel frattempo, il PIL nel primo trimestre si è contratto dell’1,5% sui tre mesi precedenti (da -1,4% delle stime preliminari) e la FED di Atlanta ha rivisto al ribasso le stime di crescita per questo trimestre da +2,4% a +1,8%.

Rischio stagflazione per USA ed Europa

L’economia americana sta rallentando e rischia di entrare in recessione. Ciò contribuisce a spiegare il crollo dei consensi per il presidente Joe Biden, dato al 39% nella rilevazione di maggio di Associated Press-NORC Center for Public Research. E proprio l’alta inflazione è una delle risposte principali che gli intervistati danno per giustificare la loro disapprovazione dell’operato del governo federale.

Nell’Eurozona, a dire il vero, va pure peggio. Se negli USA gli stipendi crescono al ritmo del 5,5% all’anno, da noi gli aumenti rasentano lo zero. In Italia, l’ISTAT ha rilevato un magrissimo +0,8% per il primo trimestre, a fronte di un’inflazione al 6,2% in aprile. In sintesi, gli stipendi americani scendono di quasi il 3% all’anno in termini reali, da noi di oltre il 5%. E come sempre è accaduto nella storia dell’economia, l’inflazione provoca instabilità politica, malcontento e, non di rado, tumulti sociali.

Se nei secoli passati imperi e principati furono oggetto di rivolte a causa del carovita, nei decenni più vicini a noi si sono registrati fenomeni persino allarmanti come terrorismo e proteste diffuse di piazza.

L’Italia degli anni Settanta è la perfetta fotografia di una società travolta dalla stagflazione. Biden rischia di perdere il controllo del Congresso alle elezioni di novembre. Fisiologico per la democrazia americana, ma in questo caso sarebbe il risultato di un malcontento alimentato principalmente proprio dall’alta inflazione.

Stabilità politica in forse con l’inflazione

In generale, il boom dei prezzi al consumo sposta gli equilibri politici a destra. Per una ragione molto semplice: storicamente, i governi conservatori si sono dimostrati più inclini alla lotta all’inflazione, mentre quelli progressisti optano nell’immediato per la piena occupazione. Bisogna ammettere, tuttavia, che questa distinzione classica fosse venuta meno negli ultimi tempi. La bassa inflazione aveva creato un’opinione trasversale e preponderante tra i partiti circa la necessità di sostenere l’economia anche a costo di reflazionarle un po’. Destra e sinistra avevano perduto i loro connotati tradizionali.

Il ritorno in grande stile dell’inflazione dovrebbe riportare un po’ di ordine nell’arena politica. La destra si riapproprierà della sua ricetta classica impostata su stretta monetaria e contro della spesa pubblica, mentre la sinistra punterà con ogni probabilità a coniugare le esigenze di crescita alla stabilità dei prezzi tramite l’innalzamento della tassazione a carico dei grossi patrimoni. Un modo per drenare un po’ di liquidità e finanziare le casse statali e qualche misura di spesa sociale.

Non facciamoci illusioni. L’inflazione provocherà malcontento anche stavolta, anche perché non è contrastata (se non marginalmente) dalle banche centrali, esattamente come negli anni Settanta. Equivale ad essere pagati di meno, a parità di ore di lavoro; ad essere tartassati dallo stato, insomma a disporre di minore potere d’acquisto. E ad essersene più colpiti sono i redditi fissi e medio-bassi.

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