Obsolescenza programmata, espressione apparentemente lugubre, che indica la produzione di un bene destinato ad essere utilizzato dal consumatore per un tempo inferiore a quello tecnicamente possibile. Per essere più chiari, parliamo di quando una lavatrice, che potrebbe restare perfettamente funzionante per 20 anni, dopo 10 non va più e deve essere sostituita, perché magari il cestello si usura e danneggia il bucato o la scheda deve essere sostituita, richiedendo una spesa che non varrebbe la pena sostenere. In Francia, una legge del 2015 ha introdotto il “delitto di obsolescenza programmata”, prevedendo una sanzione a carico delle aziende di 300.000 euro e fino al 5% del fatturato realizzato in violazione delle norme.

In questi giorni, sta facendo scalpore l’indagine avviata dalla Procura di Nantèrre a carico di HP, Canon, Brother ed Epson, tutte accusate di avere deliberatamente limitato nel tempo il funzionamento delle stampanti e delle cartucce di inchiostro. L’associazione dei consumatori HOP ha fatto notare come un litro di inchiostro è arrivato a costare 2.062 euro, praticamente rendendo impossibile per i possessori di una stampante provvedere al ricambio delle cartucce, essendo economicamente più vantaggioso acquistarne un’altra. Pare, tuttavia, che nel mirino dei giudici francesi sia rimasta solamente Epson, che già nel settembre 2015 venne accusata di impedire il funzionamento delle stampanti, nonostante nelle cartucce vi fosse circa il 20% di inchiostro residuo. Se fosse trovata colpevole, sarebbe costretta a pagare un miliardo.

Di recente, anche l’Europarlamento ha approvato una mozione contro l’obsolescenza programmata, invitando la Commissione europea ad adottare azioni contro questi metodi scorretti ai danni dei consumatori e dell’ambiente, se è vero che la maggiore velocità con cui bisogna cambiare un elettrodomestico o qualsiasi dispositivo elettronico contribuisca ad accrescere la massa dei rifiuti tecnologici, gran parte dei quali pericolosi per la salute. Nella sola Francia, essi ammontano a una media di 20 kg per abitante.

Negli USA sono stati 1,8 milioni di tonnellate lo scorso anno. (Leggi anche: iPhone 7, problemi batteria e obsolescenza)

Il caso Apple

Il 2017 si è chiuso con il caso clamoroso di Apple, costretta ad ammettere di avere rallentato gli iPhone dal modello 6 incluso, tramite gli aggiornamenti. Ufficialmente, Cupertino spiega che si tratterebbe di una misura tesa a salvaguardare la durata del melafonino, ma di fatto i clienti della mela morsicata da anni riscontrano una durata di gran lunga inferiore della batteria, man mano che escono modelli nuovi, rendendo necessario l'”upgrade”, ovvero l’acquisto dell’ultima versione. Diverse cause sono state minacciate in America e una in Israele. Le associazioni dei consumatori sono sul piede di guerra: se anziché starsene zitta, Apple avesse chiarito ai clienti che sarebbe stato sufficiente il semplice cambio della batteria, molti si sarebbero tenuti l’iPhone, non acquistando il modello successivo, spendendo diverse centinaia di dollari in più.

La polemica e il danno d’immagine sono diventati così pericolosi, che la società guidata da Tim Cook ha tagliato da 79 a 29 dollari il costo delle batterie di ricambio per i modelli oggetto del rallentamento provocato appositamente dagli aggiornamenti software. Quella di Apple non sarebbe formalmente un’obsolescenza programmata, ma nei fatti la sensazione che di questo si tratti è assai diffusa. Adesso, però, l’analista Mark Moskowitz di Barclays stima 16 milioni di iPhone in meno venduti e una perdita di 10 miliardi di dollari. In risalita da quest’anno, le azioni Apple non stanno risentendo del caso, dopo avere perso oltre il 2% nelle ultime sedute del 2017. (Leggi anche: Azioni Apple in calo su rischio class action per vecchi iPhone)

Tecnologia avanza, durata beni si riduce

All’obsolescenza programmata si può guardare da diversi punti di vista e tutti perfettamente corretti. Come il legislatore francese, la si può considerare semplicemente una truffa ai danni dei consumatori, i quali non stanno acquistando un prodotto al massimo delle potenzialità tecnicamente possibili.

Un esempio concreto: compro un paio di jeans appositamente prodotto per strapparsi dopo tot lavaggi o la cui cerniera è volutamente fabbricata con materiale tale da renderne necessaria la sostituzione dopo essere stata alzata e abbassata tot volte.

Con il progresso tecnologico, pare che siamo diventati meno capaci di costruire prodotti durature, dalle auto ai telefonini, dai computer agli elettrodomestici, passando persino per l’abbigliamento o altri beni a basso contenuto tecnologico. Quale la ragione di questo apparente “complotto” contro i consumatori? La risposta più immediata che ci verrebbe da dare sarebbe anche la più semplice e, in fondo, contiene una verità: tutte le aziende limitano la durata dei beni prodotti, al fine di accelerarne il processo di dismissione tra i clienti e aumentare così le vendite nell’unità di tempo. Se una lavatrice mi dura 10 anni, nel corso della mia esistenza ne acquisterei probabilmente 8-9, mentre se mi durasse 20 anni, al massimo arriverei a comprarne 4-5. Moltiplicate questi numeri per ciascun nucleo familiare e vi accorgerete che dietro all’obsolescenza programmata vi starebbero ragioni di fatturato con diversi zeri.

I benefici dell’obsolescenza programmata

E, però, vi è dell’altro. Il progresso tecnologico consente alle aziende di produrre beni sempre più complessi e all’avanguardia, rendendoli a disposizione della massa dei consumatori. Eppure, esso costa, essendo frutto di spese in ricerca e sviluppo sempre più significative nei bilanci dei colossi multinazionali. Da qui nascono due necessità: offrire al mercato un prodotto relativamente abbordabile per i più e fare profitti. La soluzione si chiama spesso proprio obsolescenza programmata, che consente al consumatore di beneficiare di modelli sempre più innovativi e al contempo a buon mercato, mentre l’azienda riesce a maturare profitti. Da questo punto di vista, non saremmo dinnanzi a una truffa, anzi a un modus operandi, che alla fine accontenta tutti: il consumatore sa che compra un prodotto non al massimo delle sue potenzialità tecniche, ma a prezzi compatibili con le sue tasche.

L’azienda gli rende disponibile un prodotto accessibile, riservando l’alta gamma per la clientela più facoltosa, mentre offrirà l’upgrade con modelli successivi, che hanno anche il fine di stimolare le vendite a cadenze più o meno fisse, come accade ormai quasi ogni anno con l’uscita dell’ultimo iPhone.

Certo, se i produttori di uno stesso comparto si accordassero per limitare la durata del bene sarebbe in sé un problema probabilmente più di cartello che di obsolescenza programmata in sé. Questa, infatti, sembra connaturata a una società dei consumi, dove i prodotti vengono immessi sul mercato non per durare in eterno, ma per essere consumati in breve tempo, sostituiti dopo qualche anno (se non prima) da novità più avanzate, innescando un circolo virtuoso per il business, meno forse alla lunga per le finanze dei consumatori. Eppure, una società dove tutti vogliamo tutto e senza aspettare sembra congegnata per tollerare un ciclo vitale del prodotto inferiore a quello potenziale. L’alternativa sarebbe spendere di più e dovere rinviare l’acquisto per renderlo compatibile con le nostre disponibilità finanziarie. E non tutti saremmo forse capaci di resistere.

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