Finiremo mai di parlare di riforma delle pensioni in Italia? A quanto pare, impossibile. Ogni anno i provvedimenti per cercare di contemperare le opposte esigenze si sedimentano sugli altri varati negli anni precedenti, dando vita a una boscaglia normativa da cui ormai neanche un esperto di previdenza riesce a capirci completamente. Da quest’anno entrano in vigore due novità riguardanti i pensionati contributivi e di vecchiaia. Introdotte con la legge di Bilancio 2024, sono già oggetto di critiche da parte di chi chiede una riforma complessiva e definitiva (almeno per i prossimi dieci anni) del sistema.

I dubbi sono arrivati da Alberto Brambilla, uno dei massimi esperti di previdenza in Italia e che molti conoscono per i preziosi, nonché numerosi dati regolarmente pubblicati dai suoi rapporti di Itinerari Previdenziali.

Metodo contributivo, come funziona

Di quali novità parliamo? I pensionati contributivi sono coloro che vanno in pensione con l’assegno liquidato con il metodo contributivo. Rispetto ai retributivi del passato, risultano senz’altro svantaggiati. L’importo percepito corrisponde esattamente ai contributi versati, ovviamente rivalutati annualmente per determinare il montante finale. Su di esso si applicano, infine, i coefficienti di trasformazione legati all’età anagrafica.

I pensionati contributivi “puri” possono già andare da tempo in pensione a 64 anni di età, purché muniti di almeno 20 anni di contributi. Ad una condizione: l’assegno mensile dovrà risultare almeno 2,8 volte l’assegno sociale. La novità di quest’anno è che il limite è stato alzato a 3, per cui attualmente servono più di 1.700 euro al mese per avvalersi di questo canale di uscita anticipata, che ribadiamo essere sostanzialmente a carico dello stesso pensionato. La legge ha previsto qualche eccezione in favore delle lavoratrici madri con almeno 2 figli, che possono vedersi abbassato il limite a 2,6 volte l’assegno sociale. Con un solo figlio si rimane a 2,8.

Pensionati di vecchiaia con bassi importi

E vediamo l’altra novità, che stavolta riguarda i pensionati di vecchiaia.

A 67 anni potevano lasciare il lavoro fino al 31 dicembre scorso nel caso in cui avessero maturato un assegno pari ad almeno 1,5 volte quello sociale. In caso contrario, avrebbero dovuto attendere i 70 anni di età. Requisito eliminato. Brambilla ritiene che sia un atto sbagliato, perché va nella direzione di aumentare la platea dei pensionati con assegni bassi, che poi dovranno essere integrati dall’Inps. Insomma, ulteriori esborsi a carico della fiscalità generale, cioè di tutti noi contribuenti.

Sembra difficile che nel breve il governo si ravveda sulle due misure. La ragione risiede nei numeri: ancora sono pochi i pensionati contributivi puri, visto che le norme si applicano per coloro che hanno iniziato a lavorare dall’1 gennaio 1996. Serviranno 1-2 decenni prima che diverranno la regola. Al contrario, sono tantissimi i pensionati di vecchiaia con pochi anni di contributi e/o con importi modesti. Pensate alle carriere discontinue, ai bassi stipendi, nonché al diffuso lavoro nero, specie al Sud.

Pensionati contributivi traditi dai numeri

Pensare di porre rimedio a posteriori e con l’accetta alla mancata soluzione di problemi pluri-decennali non è né possibile, né corretto. Lo stato che finge di non vedere l’elevato sommerso in giro, che gira la testa dinnanzi a cittadini che in tarda età non posseggono spesso neanche un solo anno di contributi, non è credibile che poi si riscopra severo tutto d’un colpo. Trattandosi di delicate questioni sociali, serve equilibrio. Allo stesso tempo, il segnale non può essere quello di strizzare l’occhio ai furbi (pensionati di vecchiaia con assegni bassi) e di mettere ulteriori bastoni tra le ruote a chi paga e tiene in vita la baracca (pensionati contributivi con assegni sostanziosi). A tutto c’è un limite, anche all’assistenzialismo più sfrenato.

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