Governo Conte al via. Dalle parole si dovrà passare ai fatti e dopo settimane di estrema tensione sul piano politico e finanziario, sia sul fronte dei mercati che su quello dei rapporti tra UE e Italia si registrano schiarite. Lo spread BTp-Bund è crollato dagli oltre 303 del martedì scorso ai 218 punti base dell’apertura odierna, così come i rendimenti decennali italiani sono scesi dal 3,33% al 2,57%, mentre i biennali sono precipitati dal 2,45% allo 0,74%. Gli attacchi di stampa e commissari tedeschi all’indirizzo del nuovo esecutivo sono stati seguiti da toni distensivi.

A fare da pompiere è, in particolare, il commissario agli Affari monetari, Pierre Moscovici, che negli ultimi giorni è intervenuto più volte per chiedere e segnalare il rispetto degli elettori italiani e delle loro scelte. Lo stesso presidente Jeans-Claude Juncker ha dichiarato che i governi non li scelgono i mercati e la cancelliera Angela Merkel si è detta pronta a collaborare con il nuovo governo.

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Guai a pensare che le tensioni siano alle spalle. Tutt’altro. Tra il programma di Lega e Movimento 5 Stelle ed Eurozona esiste una incompatibilità, che mina alle fondamenta dell’euro stesso. Chi pensa che sia tutta una questione di battere i pugni per strappare una qualche concessione a Bruxelles si sbaglia di grosso. Volendo essere brutalmente espliciti, l’euro senza austerità fiscale non può esistere. E vi spieghiamo perché.

Il governo Conte si fonda su un accordo penta-leghista, che se fosse portato avanti integralmente rischia di innalzare il deficit pubblico di un centinaio di miliardi di euro all’anno, a meno che non vengano reperite improbabili coperture di pari importo. Il rapporto deficit/pil salirebbe fino a un massimo dell’8%. Magari, grazie alla maggiore crescita economica che ne seguirebbe, negli anni successivi scenderebbe, ma la lunga lista delle spese, taglio delle tasse incluso, non si autofinanzierebbe, come maldestramente qualcuno vorrebbe farci credere.

Più deficit, ma niente illusioni

Ora, molto difficile che il premier possa attuare tali misure al 100%, per quanto sembra assodato che all’elettorato qualcosa dovrà concedersi, altrimenti i grossi consensi di cui godono attualmente gli azionisti di governo si azzererebbero con la stessa velocità con cui il 40,8% del PD si è dissolto nel giro di un paio di anni dalle elezioni europee 2014. Dunque, ci sarà più deficit nel futuro immediato dell’Italia. Verosimilmente e solo per ragioni di “realpolitik”, la Commissione ci consentirà di godere di qualche margine di manovra, consapevole che lo scontro frontale tra Roma e Bruxelles porterebbe al collasso dell’euro. Il punto è che non si potrà andare oltre una simile impostazione improntata all’eccezionalità. La riscrittura dei trattati mai potrà avvenire nella direzione auspicata dall’Italia, populista o europeista che sia. Il deficit spending e l’euro non potranno mai coesistere.

Quando un governo fa spesa pubblica in deficit crea reddito aggiuntivo per l’economia. Esso a sua volta innalza la domanda di moneta da parte di famiglie e imprese. Ad esempio, se lo stato assume 1.000 dipendenti per costruire nuove strade ed eroga loro uno stipendio mensile di 1.500 euro netti al mese, vi saranno 1,5 milioni di euro in più al mese richiesti sul mercato da parte di tali lavoratori. A quel punto, se la banca centrale non aumentasse la propria offerta di moneta, i tassi d’interesse aumenterebbero per la carenza di liquidità disponibile. In altre parole, l’aumento dei tassi spiazzerebbe almeno parzialmente l’effetto benefico per l’economia che avrebbe la generazione di redditi aggiuntivi. Viceversa, se la banca centrale accompagnasse la politica fiscale espansiva aumentando l’offerta di moneta, i tassi rimarrebbero stabili e la crescita economica accelererebbe.

Insomma, i redditi aggiuntivi troverebbero sfogo.

Nell’Eurozona, ci troviamo dinnanzi alla condizione peculiare di 19 governi con discreta autonomia di spesa e di imposizione fiscale e un’unica banca centrale, il cui obiettivo consiste nel perseguire la stabilità dei prezzi, intesa per statuto nel centrare un’inflazione nel medio termine di poco inferiore al 2%. Tale tasso è quello medio nell’area, ovvero potrebbe coesistere un’inflazione al 3% in Germania e all’1% in Italia o viceversa, perché all’istituto interessa il tasso di crescita tendenziale dei prezzi dell’area, non delle sue singole economie.

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Deficit ed euro non compatibili

Che cosa accadrebbe se ciascun paese avesse completa autonomia fiscale e decidesse, quindi, di spendere senza limiti imposti da patti sovranazionali? Si avrebbe una situazione, per la quale l’offerta di moneta centralizzata si confronterebbe con variazioni della domanda anche piuttosto drastiche di stato in stato. Facendo deficit, l’Italia avrebbe bisogno di maggiore liquidità, senza la quale i tassi salirebbero sul suo mercato interno, distanziandosi dal resto dell’Eurozona. Se, invece, a spendere in deficit fossero tutti i governi dell’area, l’indebitamento pubblico esploderebbe in relazione al pil, il cambio si deprezzerebbe per l’aumento presumibile delle importazioni dal resto del mondo, l’inflazione salirebbe e la BCE dovrebbe varare una stretta monetaria per combatterla, i cui effetti sulle 19 economie sarebbero recessivi.

C’è un altro problema alla base: con la moneta unica, un euro di debito emesso dall’Italia assume formalmente lo stesso valore di un euro di debito emesso dalla Germania. Tuttavia, se Roma fa deficit e Berlino è virtuosa, i mercati inizieranno a valutare l’euro-debito italiano meno sicuro di quello tedesco, pretendendo rendimenti maggiori per acquistarlo e differenziando così le condizioni monetarie nella stessa area, con la conseguenza che con il tempo la BCE non riuscirebbe più a tenere assieme esigenze diverse di chi reclama tassi più alti per contrastare l’inflazione e chi più bassi per sostenere l’economia e i conti pubblici.

I vincoli di bilancio posti a corredo dell’euro servivano e servono tutt’oggi a creare quelle condizioni minime per rendere l’unione monetaria un’esperienza fattibile.

In una prospettiva di lungo periodo, solo lo sdebitamento delle 19 economie ne abbassa i rischi sovrani e minimizza i costi per una loro condivisione futura. Se avviene il contrario, addio a emissioni di debito in comune e mercati sempre più portati a credere che l’esperimento prima o poi fallirà per assenza di fiducia tra gli stati. L’unico modo per superare l’impasse sarebbe una gestione fiscale comune, di qualsiasi impronta, cosa che propone oggi in versione minimale la Francia di Emmanuel Macron, ma che realisticamente non potrà realizzarsi nemmeno nei prossimi decenni. Perché l’Eurozona non costituisce un’unica realtà politica, bensì la somma di 19 mercati, popoli-elettori e governi differenti. E un tedesco non accetterà mai di pagare per finanziare le spese di un greco. E viceversa.

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