Sui mercati obbligazionari globali è crollo dei rendimenti, specie dopo che la Federal Reserve ha di fatto chiuso a un nuovo rialzo dei tassi negli USA, ponendo fine alla stretta monetaria iniziata nel dicembre 2015. Il Treasury a 10 anni offre intorno al 2,40%, il Bund è tornato sottozero per la prima volta da due anni e mezzo. Anche i BTp stanno beneficiando del trend, con il decennale a rendere poco meno del 2,50%. L’omologo spagnolo è sceso già sotto l’1%, mentre quello portoghese viaggia in area 1,25%.

Guardando ai dati in valore assoluto, diremmo che nemmeno la Grecia avrebbe di cosa lamentarsi, se è vero che dopo tre salvataggi internazionali e una pesante ristrutturazione del debito a carico dei creditori privati, oggi paga per i suoi “sirtaki” bond a 10 anni meno del 3,80%, ai minimi dal 2006.

La crisi del debito spiegata bene: Italia strapazzata dalla recessione, non è la pecora nera

In realtà, l’Eurozona non sta affatto bene. Nessuno sembra avere malanni, ma solo perché la BCE ha somministrato loro potenti antibiotici. Senza l’immensa liquidità iniettata da Francoforte sui mercati, nessuno comprerebbe un BTp a rendimenti così bassi, ma nemmeno Bonos e titoli lusitani. E il solo fatto che gli spread, anziché restringersi, tendano a ristagnare su livelli alti, darebbe il senso della malattia di cui soffre l’area. Che l’Italia debba pagare i suoi titoli a 10 anni a costi incommensurabilmente più alti di quelli tedeschi non fa bene allo stato di salute dell’euro, perché allontana il processo di convergenza economico su cui formalmente nasce l’esperimento della moneta unica.

Qualcuno obietterà, non senza ragioni, che Roma non possa pretendere di indebitarsi agli stessi costi di Berlino, quando la Germania chiude dal 2014 i bilanci in attivo e vanta un rapporto debito/pil ormai al 60%, mentre l’Italia ne possiede uno sopra il 130% e per giunta nemmeno cresce.

Giustissimo, ma questo sarebbe il ragionamento da compiere se avessimo ciascuno una moneta “sovrana”. Con l’euro, in teoria dovrebbe esserci un unico grande mercato finanziario, così come nella sostanza avvenne fino al 2007-’08, cioè prima che esplodesse la crisi finanziaria, con epicentro l’America e non l’Europa, sarebbe bene ricordarselo sempre. Pagare rendimenti molto diversi per debiti emessi nella stessa moneta implica un rischio di credito percepito e variabile da stato a stato, come se non vi fosse in comune una struttura capace di agire di mitigare le differenze macro. In effetti, è così.

I dati positivi dell’Eurozona

Da qui, il clima di continua autofustigazione che si respira nell’area, quando i fondamentali direbbero altro. Un report pubblicato di recente dall’agenzia Standard & Poor’s si mostra illuminante in tal senso. Quest’anno, stima che le emissioni di nuovo debito saranno pari a 7.780 miliardi di dollari, portando il debito totale quotato nel mondo e da essa monitorato a 50.000 miliardi. Suddividendo per fasce di rating, scopriamo che il 6% dei volumi sarà emesso da stati con tripla “A”, il 45% da quelli con giudizio “AA” e un altro 6% da stati “non investment grade”, considerati emittenti “speculativi”. Ne deriva che gli stati con rating “A” e “BBB” emetteranno un altro 43%, pari a circa 3.345 miliardi.

Ecco come combattere la crisi dello spread e risparmiare preziosi miliardi

Analizzando i numeri di ciascun paese, abbiamo che gli USA emetteranno nuovo debito sovrano per 2.860 miliardi, il Giappone 1.740, la Cina 650 e l’Eurozona 881 (in euro). Di quei 7.780 miliardi di emissioni, il 70% sarà destinato a rifinanziare debiti in scadenza, mentre 2.600 miliardi, pari al 2,6% del pil globale, coprirà esigenze nette di finanziamento degli stati. Negli USA, queste ultime dovrebbero portarsi alla soglia dei 1.000 miliardi, circa il 4,7% del pil e il 40% del totale nel mondo. Nell’Eurozona, sono attese a 162 miliardi di euro, ai minimi dal 2007, pari a circa l’1,4% del pil atteso e al 7% delle emissioni nette globali.

Questi numeri ci raccontano una realtà molto migliore di quella che immaginiamo per l’area: se l’America quest’anno emetterà quasi il 37% dell’intero debito sovrano mondiale e per un importo pari a circa il 13,5% del suo pil, l’Eurozona resterà sotto il 13% e per appena il 7,5% del suo pil. In altre parole, non esiste un problema di debito nell’unione monetaria, dove le esigenze di rifinanziamento nette ammonteranno a circa la metà della media mondiale. Non solo: le emissioni nel mondo si concentrano sulle fasce di rating medio-alte, per cui non vi sarebbe alcuna pressione sui titoli del debito con rating medio-basso, come i BTp. Stiamo dicendo, senza fronzoli, che la crisi debitoria di cui discutiamo in maniera ossessiva da anni a Bruxelles e nelle singole capitali dell’area sia frutto più di un’allucinazione che della realtà.

La crisi di fiducia auto-indotta nell’Eurozona

L’Eurozona non ha un debito pubblico complessivamente elevato, né sta ricorrendo ai mercati finanziari per importi insostenibili. Tutt’altro. E allora? C’è che il livello di masochismo nel Nord Europa è tale, che nessuno si rende realmente conto di quanti danni ci stiamo auto-infliggendo puntando il dito di volta in volta contro questo o quel paese. Non c’è dubbio che il dato generale positivo sia frutto della media tra ordine fiscale nel nord e maggiore lassismo al sud. Fatto salvo che non possa esistere alcuna comunità che funzioni, al cui interno alcuni tirano la carretta e altri si rilassano in spiaggia sotto il sole, bisognerebbe avere l’intelligenza di capire che l’euro non potrà reggersi a lungo nemmeno segnalando ai mercati il cattivo di turno. Se solo a Bruxelles e Francoforte s’iniziasse a ragionare come se davvero i 19 stati membri fossimo parte di un’unica realtà economico-finanziaria, nessuno all’interno o da fuori ne metterebbe più in dubbio la sostenibilità dei singoli debiti.

La crisi di fiducia verso l’Italia è la maledizione che auto-alimenta il debito pubblico 

Dovremmo tornare all’era pre-crisi, quando gli spread erano grosso modo azzerati (a fine agosto 2005 lo spread BTp-Bund a 10 anni toccò il minimo di circa 20 punti base o 0,20%) e i capitali fluivano da nord e sud senza che si dubitasse sull’esistenza di un unico mercato finanziario. Questo contribuì a stabilizzare il rapporto debito/pil dell’Italia a poco sopra il 100%. Potevamo e dovevamo fare di più, ma di certo non ha aiutato negli anni seguenti l’esplosione dei rendimenti sovrani, che ha innalzato il costo di rifinanziamento del nostro debito e sciupato buona parte dei sacrifici compiuti dagli italiani. E che stati come l’Italia non ebbero colpe specifiche per meritare una tale crisi di fiducia appare ormai un dato acquisito. Fu la sfiducia verso l’impalcatura dell’euro, alimentata dalla reazione scomposta e tardiva dell’area alla crisi del debito in Grecia, ad avere messo in fuga gli investitori, i quali hanno da lì in poi cercato e trovato riparo nel nord, specie nei Bund, accentuando le distanze tra stati e finendo per frammentarne i mercati, come se non avessimo in comune alcuna moneta.

Se nemmeno dopo quasi 4 anni di “quantitative easing” la BCE è stata in grado di riportare gli spread a livelli accettabili, è perché i mercati percepiscono tali stimoli come una condizione contingente, verosimilmente seguita da un atterraggio duro per quegli stati più indebitati ed esposti all’accrescimento della sfiducia con il ritorno alla “normalizzazione” monetaria. Servirebbe un meccanismo definitivo e non transitorio, che medi tra la necessità di ripristinare la fiducia perduta e quella di evitare una dannosa monetizzazione dei debiti degli stati fiscalmente lassisti. C’è bisogno del giusto equilibrio tra responsabilità e condizioni finanziarie dappertutto simili nell’area, altrimenti il senso di appartenenza verrà sempre meno, man mano che i benefici percepiti per l’euro si affievoliranno. E i numeri di cui sopra ci pongono a riflettere sui danni che ci saremmo potuti risparmiare, se solo avessimo ragionato davvero da blocco unitario e non come vecchie comari in eterno conflitto a farsi la spia a vicenda.

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