E’ stato un lunedì nero per le borse mondiali, con l’indice S&P 500 a Wall Street ad avere chiuso ieri sera a -7,60%. Maglia nera tra le principali piazze finanziarie del pianeta è stata, però, Milano. Qui, l’Ftse Mib è letteralmente colato a picco, segnando in chiusura di seduta un pesante -11,2%, perdendo 2.324 punti e scendendo ai minimi da fine 2016. Quando ieri mattina si sono aperte le contrattazioni, molti titoli del listino principale non sono riusciti a fare prezzo, in quanto le perdite iniziali superavano il 10% e, pertanto, le negoziazioni venivano prontamente sospese per essere riprese poco dopo.

Piazza Affari è stato il mercato più colpito per effetto del decreto sul Coronavirus, che da domenica ha imposto la chiusura di Lombardia e 14 province del Nord, misure estese da oggi a tutta Italia, come ha annunciato ieri sera il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa. Già domenica, diversi esponenti delle opposizioni, tra cui Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani, avevano chiesto al governo di valutare la chiusura della borsa italiana o almeno di vietare le vendite allo scoperto.

Queste ultime sono state prese in considerazione dalla Consob, che ieri ha spiegato come il crollo dei listini non sia stato conseguenza di attacchi speculativi, a meno di non considerare tali le vendite copiose in reazione alle misure contenute dal decreto legge. E solo la speculazione giustificherebbe l’imposizione di restrizioni all’operatività ordinaria della borsa. Ad ogni modo, hanno impressionato tutti i crolli accusati dai titoli principali. ENI, Saipem e Tenarsi sono stati i più colpiti e non poteva essere altrimenti, essendo stati travolti dal crollo delle quotazioni petrolifere. In tutti e tre i casi, le perdite hanno superato il 20%. Male anche le banche, tanto che l’indice loro dedicato ha chiuso a -12,25%.

Come funzionano le vendite allo scoperto

Cosa sono le vendite allo scoperto? E’ una tecnica speculativa ribassista, che consiste nel vendere un titolo che non si possiede, facendoselo prestare da un broker o promettendo all’acquirente la consegna entro una certa data (vendita “nuda” o “naked”).

Se il prezzo del titolo scende, come ha scommesso il venditore, questi avrà la possibilità di acquistarlo a meno di quanto lo ha precedentemente venduto, maturando una plusvalenza. Poiché il mercato monitora la quantità di titoli oggetto di cosiddetto “short selling”, ne deduce che quelli più esposti siano destinati a deprezzarsi, in quanto oggetto di scommesse ribassiste.

Le vendite allo scoperto sono spesso condannate dall’opinione pubblica quali fonte di chissà quale male, ma si tratta semplicemente di una scommessa opposta a chi acquista un titolo finanziario per specularvi al rialzo. Esse forniscono liquidità al mercato nelle fasi ribassiste, in quanto forniscono domanda quando gli altri vendono, mentre calmierano i prezzi nelle fasi di euforia, perché aumentano l’offerta quando gli altri acquistano. Inoltre, fungono da termometro per valutare le aspettative degli investitori, perlopiù istituzionali, con riferimento a un titolo. In un certo senso, le vendite allo scoperto si mostrano persino desiderabili nelle fasi negative come queste, quasi ponendo un “floor” alla caduta dei prezzi.

E la chiusura della borsa? Se ne discute ogni volta che si registrano eventi traumatici, come fu il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008 o il referendum sulla Brexit nel giugno 2016. Nel primo caso, intervenne persino l’allora premier Silvio Berlusconi per convincere gli alleati europei e gli USA di sospendere per un periodo le contrattazioni, sebbene l’appello non venne raccolto e cadde nel vuoto. Ieri sera, alla luce dei pesanti ribassi a Milano, i fautori della chiusura di Piazza Affari vi hanno scorto la bontà delle loro ragioni. Le cose, però, non stanno così.

Chiudere Piazza Affari?

Anzitutto, chiudere la borsa lancerebbe un segnale di panico agli investitori, i quali, anziché essere rassicurati, ne ricaverebbero deduzioni ancora più negative circa lo stato di salute del sistema Italia. Secondariamente, sarebbe una misura sostanzialmente inutile, perché le vendite verrebbero semplicemente rinviate al futuro, non certo annullate. Vi ricordate la chiusura della Borsa di Atene nell’estate del 2015 per diverse settimane? Alla riapertura, il listino principale perse il 18%, esattamente come aveva anticipato l’Etf quotato negli USA e con sottostante proprio l’indice ellenico. E, infatti, i fondi dalla gestione passiva, che si limitano a replicare l’andamento di un indice, continuerebbero a segnalare gli umori del mercato su Milano, se negoziati su una piazza finanziaria estera.

Infine, esistono titoli che vengono negoziati su più mercati. Si pensi a Fiat Chrysler. Che cosa accadrebbe nel caso di chiusura di Piazza Affari? Agli azionisti che hanno acquistato i titoli negoziati a Milano non sarebbe consentito vendere, agli altri che hanno acquistato a New York sì. Per non parlare del fatto che i mercati regolamentati non siano gli unici in cui avvengono gli scambi. C’è tutto quel mondo “over the counter” e su cui le autorità non hanno praticamente potere, dove i titoli continuerebbero a passare di mano, inviando informazioni continue, per quanto scarne e non pienamente attendibili per via della ridotta liquidità, sui prezzi di mercato. Insomma, chiudere la borsa non è mai un buon affare. Equivale a sottrarre il termometro a un malato per impedirgli di misurarsi la febbre.

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