L’elezione di Donald Trump a presidente USA è stata uno shock per gli equilibri diplomatici americani, così come sono stati conosciuti negli ultimi decenni. L’attuale inquilino alla Casa Bianca è considerato il maggiore fautore di sempre di un avvicinamento dell’America alla Russia, cosa che sta facendo sperare il Cremlino, per quanto sia indigesta a parte della stessa amministrazione di Washington. Una delle conseguenze di questo mutamento di indirizzo in politica estera è la crisi dei rapporti con l’Arabia Saudita, che negli ultimi 40 anni e oltre è stato un partner solido degli americani.

Riad ha finanziato e sostenuto la campagna elettorale della candidata democratica Hillary Clinton, per cui oggi non può che fare buon viso con Trump, sebbene ne tema le mosse sul fronte delle relazioni internazionali.

Cosa c’è in gioco tra sauditi e americani e perché i rapporti tra i due governi potrebbero deteriorarsi? Già negli ultimi mesi dell’amministrazione Obama, il regno era preoccupato per la risoluzione approvata dal Congresso USA e sulla quale l’ex presidente pose il veto, che revocava l’immunità ai rappresentanti di Riad sulle indagini per terrorismo, in relazione agli attacchi dell’11 settembre. (Leggi anche: Arabia Saudita furiosa sull’11 settembre, minaccia ritorsioni sui Treasuries)

Divergenze tra Trump e sauditi

Più in generale, Trump rimprovera quasi esplicitamente i sauditi di sostenere sotto traccia il terrorismo jihadista dell’ISIS, creando caos nel Medio Oriente e sposando le stesse posizioni di Mosca, da anni impegnata nella difesa del regime siriano di Bashir al Assad contro i miliziani islamisti, sostenuti proprio dal regno saudita in funzione anti-iraniana.

Se i rapporti tra Washington e Riad saltassero, però, sarebbe una pessima notizia per l’una e per l’altra capitale. Nel 1971, l’allora presidente Richard Nixon decretò la fine di Bretton Woods, il sistema monetario nato nel 1944 e che regolava i tassi di cambio delle economie rientranti nell’orbita americana.

Le monete nazionali furono ancora al dollaro da un cambio fisso e a sua volta il dollaro fu reso convertibile in oro nel rapporto di 35 unità per un’oncia. In questo modo, tutte le monete facenti parte dell’accordo divennero indirettamente convertibili in oro. (Leggi anche: Il peccato monetario dell’Occidente: l’abolizione di Bretton Woods)

L’accordo tra USA e sauditi

Il sistema saltò, perché gli alti deficit fiscali dell’America, impegnata nella costosa operazione bellica in Vietnam, unitamente ai crescenti surplus commerciali di Germania e Giappone (la storia si ripete!) resero non più certo per gli USA di potere convertire su richiesta delle altre banche centrali i dollari in oro.

Ma adesso arriva la seconda parte della storia e che ha creato decenni di benefici per gli americani. Preso atto del crollo di un sistema, Nixon inviò il suo segretario di Stato, Henry Kissinger, a Riad, dove stipulò un patto con l’allora Re Faisal, in base al quale i sauditi avrebbero accettato di essere pagati solo in dollari per le loro esportazioni di petrolio, mentre gli americani s’impegnavano in cambio a proteggere militarmente il regno, di fatto controllando l’intero scacchiere mediorientale.

Nasce il sistema dei petrodollari

Nacque, quindi, il “petrodollar system”, tutt’oggi funzionante. Poiché i sauditi erano e sono ancora leader del mercato mondiale del petrolio, gli altri concorrenti seguirono le sue orme e sostanzialmente oggi risulta quasi impossibile acquistare greggio dall’estero in una valuta diversa dal dollaro. Ora, che implicazioni ha un simile sistema per l’economia americana e del resto del pianeta?

Quest’anno, stando ai dati dell’Agenzia energetica internazionale, il mondo consumerà la media di circa 98 milioni di barili al giorno. Parte rilevante di questa domanda si ha in paesi con la necessità di importare greggio dall’estero, non disponendone di proprio o non a sufficienza.

Nel 2015, il valore delle esportazioni complessive nel mondo di petrolio è stato di quasi 800 miliardi di dollari. E pensare che solamente un anno prima, il prezzo del Brent era stato mediamente il doppio, arrivando a 115 dollari al barile. (Leggi anche: Guerra sanzioni USA-Russia, che succede se l’Asia attacca i petrodollari?)

I petrodollari tengono basso il costo del debito USA

Ora, se tutte le economie del mondo importatrici di petrolio sono costrette a pagarlo in dollari, ciò impone loro di detenere una quantità minima sufficiente di riserve valutarie per rendere possibile l’approvvigionamento energetico. In altre parole, tutti nel mondo devono comprare dollari per il solo fatto che sono l’unico modo per acquistare greggio.

La domanda elevata di dollari rafforza il cambio degli USA da un lato, provocando un cronico deficit commerciale (le imprese americane esportano meno di quanto i consumatori americani acquistino beni e servizi dall’estero), ma allo stesso tempo consente al popolo americano di vivere al di sopra delle proprie possibilità. Come? Lo stato, le famiglie e le imprese possono indebitarsi a tassi molto bassi, grazie proprio all’elevata domanda mondiale di dollari. Per intenderci, tutte le banche centrali acquistano Treasuries per investire in assets denominati in dollari, cosicché i loro rendimenti restano bassi, nonostante il debito pubblico USA sia non molto più basso di quello italiano. (Leggi anche: Debito USA a $20.000 miliardi, +88% nell’era Obama)

Gli americani vivono al di sopra delle loro possibilità

Lo stesso vale per il mercato obbligazionario americano, per cui nell’insieme tutti in America possono indebitarsi a basso costo, continuando a vivere al di sopra delle proprie possibilità. In un certo senso, il sistema dei petrodollari creato da Nixon, così tanto vituperato nella storia USA, sta facendo vivere nella bambagia gli americani, i quali non avvertono praticamente mai il reale peso dei loro debiti e consumano tipicamente più di quanto non potrebbero permettersi.

Cosa accadrebbe, se all’improvviso l’Arabia Saudita, leader dell’OPEC, i cui membri detengono complessivamente l’80% delle riserve petrolifere mondiali, decidesse di accettare i pagamenti anche in altre valute? Sarebbe la fine del “sogno americano”. Il Tesoro di Washington inizierebbe nel tempo a registrare un aumento dei rendimenti, per cui il costo del debito USA salirebbe con gradualità e renderebbe necessarie politiche di austerità fiscali anche in America. Le stesse famiglie e imprese assisterebbero a un aumento dei costi per indebitarsi e all’impatto dovrebbero tagliare i loro consumi per sostenere i maggiori oneri, così come con il tempo dovrebbero adeguarsi a un nuovo standard di vita, caratterizzato da meno debiti (meno consumi immediati) e più risparmi. (Leggi anche: Trump stia attento ai debiti delle famiglie)

Senza petrodollari è la fine della superpotenza attuale

Non è detto che in sé la fine del sistema dei petrodollari sarebbe negativa per l’economia americana, in quanto porrebbe fine a molte storture esistenti in essa. Tuttavia, l’impatto sarebbe duro e gli americani non potrebbero più fare affidamento sulla loro superpotenza valutaria per rimettere le cose a posto, quando non vanno. Stampare dollari per la Federal Reserve significherà creare inflazione e lo stato federale dovrebbe darsi una regolata con le spese militari, in quanto la loro sostenibilità non sarebbe più certa. I debiti degli americani non verrebbero più automaticamente finanziati dagli investitori e i governi stranieri. Insomma, sarebbe la fine degli USA così come li abbiamo conosciuti dalla Seconda Guerra Mondiale. Forse più responsabili. E l’amministrazione Trump potrebbe avere avvicinato di molto l’appuntamento inevitabile con una nuova era per la storia americana. (Leggi anche: Spese militari USA, $10.700 miliardi in 20 anni)