A gennaio, l’inflazione americana è salita al 7,5% dal 7% di dicembre, toccando un nuovo massimo dal 1982. Il dato di settimana scorsa è risultato persino superiore alle attese del 7,3%. Sui mercati, il rialzo dei tassi FED a marzo è dato per certo. Anzi, praticamente esisterebbero elevate probabilità che al board del mese prossimo la Federal Reserve aumenti il costo del denaro di mezzo punto percentuale, anziché di un quarto di punto. Sarebbe la prima volta dal 2000. Il mercato sconta tale scenario quasi con certezza e intravede da qui alla fine dell’anno ben sette rialzi all’1,75-2%.

Uno dei componenti del board, il governatore di St Louis, James Bullard si mostra propenso a un aumento di 100 punti base o 1% entro luglio. E poiché da qui ad allora si terranno quattro riunioni del board, ciò implica alzare a ciascuna di essa i tassi FED dello 0,25% o di mezzo punto per una volta e un quarto di punto per altre due, prendendosi una pausa, verosimilmente proprio a luglio.

Sui mercati è accaduto che il Treasury a 2 anni nella seduta di giovedì, quella in cui sono state diffuse le stime dell’inflazione a gennaio, sia passato da un rendimento dell’1,35% a uno dell’1,56%. Nel frattempo, il Treasury a 10 anni è balzato oltre il 2% per la prima volta da luglio 2019, oltre due anni e mezzo fa. Il segnale che ci arriva dai bond sovrani americani può essere letto in vari modi. Certamente, il boom dei rendimenti riflette l’atteso aumento dei tassi FED. E le distanze tra la scadenza a 10 anni e quella a 2 anni si sono accorciate. Lo spread tra le due si attestava a 90 punti base o 0,90% all’inizio dell’anno, da allora più che dimezzatosi ai 43-44 punti delle ultime sedute.

Quale sarebbe la ragione dietro a questo restringimento? I rendimenti a breve tendono a riflettere le previsioni di politica monetaria, per cui scontano in questa fase un rialzo dei tassi FED.

I rendimenti a lungo riflettono maggiormente le aspettative d’inflazione. E il mercato non vede rischi di instabilità dei prezzi da qui a 10 anni, semmai concentrati nel prossimo futuro. Peraltro, proprio la stretta monetaria riuscirebbe a frenare l’inflazione nel corso dei prossimi anni.

Tassi FED e rischio recessione economica

Tuttavia, il restringimento degli spread tra rendimenti a lungo e a breve è pericoloso e c’è da scommetterci che il governatore Jerome Powell ne terrà conto quando alzerà i tassi FED a marzo. Esso svolge una funzione segnaletica, nel senso che solitamente quando la curva dei bond è piatta o, addirittura, invertita l’economia americana nei trimestri successivi rischia di entrare in recessione. D’altra parte, questi movimenti stessi causerebbero una crisi, stando a parte degli analisti. I rendimenti a breve determinano il costo a cui tendono a finanziarsi le banche, mentre quelli a lungo formano i tassi ai quali le banche prestano denaro. Una curva piatta o invertita diventa un problema per il sistema bancario: il margine di profitto prestando denaro si riduce o azzera del tutto, ragione per cui chiuderebbe i cordoni della borsa, “gelando” investimenti delle imprese e consumi delle famiglie.

Va da sé che più il mercato si attenda un rialzo dei tassi FED vigoroso e maggiore il rischio che effettivamente l’economia americana si avvii verso la recessione. A loro volta, le attese sulla stretta dipendono dall’andamento dell’inflazione. Il board si trova nella difficile condizione di dover mediare tra l’esigenza di “raffreddare” le aspettative d’inflazione e quelle sui tassi. L’optimum sarebbe riuscire a convincere il mercato già nei primi mesi della stretta, magari beneficiando di un affievolimento dei prezzi delle materie prime. Ad oggi, siamo lontani da questo scenario.

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