I lavoratori costretti a lavorare fuori casa nelle ore della pausa pranzo usufruiscono dei buoni pasto, erogati dal loro datore di lavoro. Si tratta di un benefit che consente loro di acquistare presso bar, ristoranti e supermercati convenzionati senza spendere di tasca proprio. Ma il sistema che vi ruota attorno mostra limiti evidenti. Nel 2019, l’anno prima della pandemia, in Italia furono emessi 500 milioni di buoni pasto per un controvalore complessivo di 3,2 miliardi di euro. Di questi, 175 milioni furono acquistati dalla Pubblica Amministrazione a favore di 1 milione di dipendenti pubblici.

Adesso, le imprese commerciali ANCD Conad, ANCC Coop, FIEPeT Confesercenti, Federdistribuzione, FIDA e Fipe Confcommercio hanno lanciato un avvertimento, affinché la prossima gara Consip esiti una riforma del sistema ed eviti di gravare gli esercizi delle altissime commissioni imposte. Inoltre, chiedono tempi certi alle società emittenti dei buoni pasto per la riscossione del denaro loro spettante.

Ecco come funziona il sistema dei buoni pasto

Come funziona? Consip, che è la centrale unica degli acquisti della Pubblica Amministrazione, periodicamente indice bandi di gara per selezionare le società erogatrici dei buoni pasto. Sceglierà chiaramente coloro che le forniscono il servizio al minore costo possibile. A loro volta, le società che emettono i buoni pasto si rifanno sugli esercizi che li accettano come pagamento dai clienti a seguito di apposita convenzione. Impongono loro commissioni molto elevate, pari al 19,8% con la gara del 2018 e del 17,8% con la gara del 2019.

In pratica, il lavoratore spende presso un ristorante convenzionato un buono pasto dal valore (per ipotesi) di 8 euro. Il titolare lo accetta in pagamento e quando ne chiede il rimborso monetario alla società che lo ha emesso, questa gli versa 6,60 euro. La differenza di 1,40 euro sarà il margine lordo maturato dall’emittente.

A rimetterci saranno le imprese commerciali, le quali sono solite attendere anche parecchi mesi prima di ricevere i rimborsi.

D’altro canto, il sistema si regge sull’assunto che tali imprese si avvantaggino dei buoni pasto, avendo clienti durante la pausa pranzo che altrimenti non metterebbero piede nei loro esercizi. Ma questo sistema crea una falla vistosa: a fronte di un buono del valore nominale X, chi lo accetta in pagamento riceve X – Y, dove Y è il valore della commissione.

Meglio somme esentasse in busta paga

Più che riformare il sistema, servirebbe abbatterlo. Come? I buoni pasto sono esentasse per l’azienda fino a 4 euro cadauno se cartacei, 8 euro se elettronici. All’azienda conviene emettere buoni pasto, anziché erogare una somma aggiuntiva in busta paga. Infatti, su quest’ultima pagherebbe le imposte, gli oneri contributivi e il rateo del TFR. Tuttavia, se il legislatore esentasse una somma corrispondente agli attuali buoni pasto, anche se erogata in busta paga, il sistema eviterebbe in un solo colpo gare, commissioni ed esercizi imbufaliti per ritardi e costi eccessivi sostenuti.

Sarebbe una scelta del lavoratore decidere eventualmente se utilizzare o meno tale somma versatagli dall’impresa per mangiare fuori casa durante l’orario di lavoro. Anzi, sarebbe più libero di scegliere dove comprare cosa. Al limite, potrebbe anche portarsi il classico panino da casa. Meglio di un sistema farraginoso e gravoso per il sistema del commercio.

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