Tanto tuonò che piovve? Ancora presto per dirlo. Da anni (non mesi) gli analisti di tutto il mondo paventano il rischio di recessione negli Stati Uniti. E puntualmente sono stati smentiti. Ad oggi. Se ci pensiamo bene, Covid a parte, è dagli inizi del 2009 che la prima economia mondiale non entra in crisi. Viene da chiedersi se lo avrebbe fatto ugualmente senza pandemia. Fatto sta che i segnali che sono arrivati di recente dal suo mercato del lavoro, non sono più tanto rassicuranti.

Lavoro rallenta, rischio recessione?

Nel mese di luglio, i posti di lavoro non agricoli creati sono stati solo 114 mila, meno dei 175 mila del consensus e in calo dai 179 mila di giugno. E il tasso di disoccupazione è salito dal 4,1% al 4,3%, ai massimi da ottobre del 2021. Infine, rallentamento anche nella dinamica salariale: +3,6% annuale, giù dal +3,8% di giugno (rivisto da +3,9%). Su base mensile gli stipendi sono cresciuti dello 0,2% contro il +0,3% di giugno.

Segnali da regola di Sahm

Anche la famosa regola di Sahm paventa il rischio di recessione. Essa sostiene che l’economia negli Stati Uniti si contrae dopo che la media trimestrale per il tasso di disoccupazione sale di almeno mezzo punto percentuale dal tasso minimo registrato negli ultimi dodici mesi. La media del periodo maggio-luglio è stato del 4,13%, a fronte di un tasso minimo del 3,7% avutosi nei mesi di novembre, dicembre e gennaio scorsi. La differenza è stata dello 0,43%, sfiorando lo 0,50%. Tuttavia, c’è da ammettere che è risultata in calo dallo 0,50% esatto toccato a giugno.

Che crediamo o meno alla regola di Sahm, la certezza è che il mercato del lavoro influisce molto sulla prima economia mondiale, il cui Pil si compone per il 70% da consumi delle famiglie. Ma queste spendono se hanno un reddito. Fin troppo ovvio. E il reddito negli ultimi anni lo hanno visto crescere in parte grazie ai generosissimi sussidi elargiti dal governo federale e dagli stati.

Si è trattato di aiuti diretti nell’era Covid, seguiti da incentivi legati all’Inflation Reduction Act (IRA), un piano di diverse centinaia di miliardi finalizzato a gestire la transizione energetica.

Verso taglio dei tassi Fed

Se il rischio recessione è stato ad oggi evitato, lo si deve perlopiù a una politica fiscale ultra-espansiva, che ha permesso di assorbire lo shock derivante dal maxi-rialzo dei tassi di interesse. E c’è stato anche un boom di lavoratori immigrati ad avere contribuito alla crescita della produzione e del Pil americano. Ma non sono tutti fattori prorogabili all’infinito. Il debito americano è esploso fino a portarsi a ridosso del 130% del Pil, pur scendendo sotto il 125% successivamente. Resta il fatto che la spesa per interessi viaggia verso i 1.000 miliardi di dollari all’anno, quadruplicando rispetto all’era dei tassi a zero.

A seguito dei dati sul lavoro a luglio, il Treasury a 10 anni ha visto crollare il rendimento ai minimi dell’anno, a poco più del 3,80%. Si spiega con l’attesa di un taglio dei tassi a settembre da parte della Federal Reserve. E questo anche con un’inflazione ancora al 3% a giugno, nettamente sopra il target del 2%.

Rischio recessione fa paura in Europa

Il rischio di recessione negli Stati Uniti desta preoccupazione anche in Europa e, soprattutto, in economie esportatrici come l’Italia. La nostra bilancia commerciale deve la metà del suo avanzo ogni anno proprio al mercato americano. E un suo peggioramento andrebbe compensato dalla domanda interna (consumi) per impedire all’economia di avvitarsi su sé stessa. Ma ciò presupporrebbe una manovra fiscale espansiva per la quale servirebbero risorse ad oggi inesistenti. L’auspicio è che il taglio dei tassi Fed allontani l’ingresso nella crisi e consenta all’economia a stelle e strisce di continuare ad espandersi.

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