Non è ancora allarme spread, anche perché quando il governo Meloni s’insediava a Palazzo Chigi, ereditava dal predecessore Mario Draghi un differenziale di rendimento nell’ordine dei 250 punti base. Adesso, resta sotto i 200. Ciononostante, c’è poco spazio per l’autoconsolazione. Anche perché i rendimenti italiani risultano ormai stabilmente i più alti di tutta l’Eurozona, superando abbondantemente quelli spagnoli, portoghesi e, addirittura, greci. I mercati pretendono intorno al 4,80% per comprare BTp a 10 anni, quando si accontentano ancora di neppure il 2,90% offerto dagli omologhi tedeschi.

Aumento tassi trascina spread a 200 punti

Il boom dello spread nelle ultime settimane è legato alla politica monetaria della Banca Centrale Europea (BCE). Poiché i tassi di interesse sono saliti ai massimi dell’era euro, la pressione sui conti pubblici si fa molto seria per quei paesi alle prese con la gestione di alti livelli di debito pubblico. E, ça va sans dire, stiamo parlando proprio dell’Italia. Ci sarebbe anche la Grecia, se non fosse che per i tre quarti è indebitata verso gli altri paesi europei e solo per un quarto dello stock sui mercati. Pertanto, l’aumento dei tassi di interesse fa di gran lunga più danni a Roma che ad Atene.

Ora che la BCE prospetta tassi alti più a lungo, gli investitori hanno iniziato a prendere di mira i BTp, scontando un maggiore rischio sovrano italiano. Ma la politica monetaria è solo una parte della spiegazione per lo spread. Inquieta anche la politica fiscale. Il governo Meloni ha alzato il deficit atteso per quest’anno dal 4,5% al 5,3% del PIL e per l’anno prossimo dal 3,7% al 4,4%. Si tratta di semplice realismo. L’economia italiana sta rallentando e i conti pubblici migliorano meno delle previsioni. Non siamo dinnanzi a un governo-cicala, tant’è che Draghi aveva lasciato il deficit al 5,6% del PIL, al netto della componente Superbonus.

Ritorna Patto stabilità

Il punto è un altro. Dall’anno prossimo tornerà in vigore il Patto di stabilità. E’ stato sospeso dal 2020 per la pandemia. Esso prevede un tetto al deficit al 3% del PIL e al debito pubblico al 60%. Inoltre, impone un taglio annuale del rapporto debito/PIL, in combinato con il Fiscal Compact, a dire il vero mai davvero debuttato. Ma sono in pochi a volere tornare al vecchio Patto. Da mesi i governi europei trattano per una riforma. La Commissione ne ha abbozzata una, ma la Germania non è soddisfatta. Berlino chiede valutazioni più tecniche e automatismi nella comminazione di eventuali sanzioni. In più, pretende regole fiscali più stringenti, come ad esempio la riduzione del rapporto debito/PIL di almeno l’1% all’anno per i paesi sopra il 60%.

Per sventare il rischio di tornare al vecchio Patto, un accordo andrebbe trovato entro dicembre. I mercati fremano e lanciano segnali di fumo attraverso lo spread. Essi non stanno capendo quali saranno le regole fiscali dal 2024. Una cosa sarebbe consentire all’Italia di gestire una politica fiscale più morbida, un’altra imporle misure di austerità. Il combinato tra stretta monetaria e fiscale avrebbe effetti deleteri sull’economia italiana. Ergo, il rapporto debito/PIL rischierebbe di risalire, anziché proseguire la discesa.

Investimenti fuori da deficit

Non che i mercati gradiscano lo spandi e spendi di Roma. Semplicemente, vogliono regole chiare per capire l’impatto sui conti pubblici delle scelte europee. L’Italia di Giorgia Meloni chiede che la Commissione scorpori gli investimenti pubblici, magari anche solo quelli effettuati con il Pnrr, dal computo del deficit. Storia vecchissima. Pensate che ci aveva provato per anni il defunto ex premier Silvio Berlusconi. A seguire, un po’ tutti hanno invocato una simile flessibilità. Stavolta, però, le chance di farcela sarebbero maggiori per via della congiuntura geopolitica ed economica.

Servono tanti quattrini agli stati per implementare la transizione energetica, altrimenti solo paesi con margini fiscali come la Germania potrebbero permettersela a colpi di aiuti di stato.

Tra l’altro, le stesse spese militari dovranno salire per tendere al 2% del PIL, come da richiesta NATO. E gli elettorati non accettano da nessuna parte che ciò avvenga a spese di altri capitoli, come magari la sanità, l’istruzione o le pensioni. Un accordo serve per mettere insieme le varie esigenze. E il governo di Olaf Scholz ha perso credibilità da quando i giudici contabili tedeschi hanno accertato che ha truccato i conti pubblici, trasferendo ingenti capitoli di spesa a carico di veicoli finanziari parastatali. Tra questi, proprio l’aumento delle spese militari e gli investimenti green.

Spread su, c’entra paralisi tedesca

Ma preoccupa la profonda crisi di consenso del governo tedesco. Se oggi si andasse a votare, i tre partiti della maggioranza al Bundestag messi insieme otterrebbero uno striminzito 36% contro il 52% di due anni fa. E gli euro-scettici dell’AfD volerebbero al 22%, secondi solo ai conservatori della CDU-CSU. La paralisi politica a Berlino tiene in apprensione i mercati, perché quando la Germania non si muove, a Bruxelles si calcia il barattolo e non si decide nulla. Forse è anche per questo che il presidente francese Emmanuel Macron sta avvicinandosi alla premier italiana sulla questione migranti, così come anche sulla revisione della governance europea. Il suo principale partner non sembra in condizioni di gestire la situazione. E lo spread in volata sotto elezioni europee non conviene a nessuno.

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