Dopo anni di balbettamenti in Italia sulla politica aziendale dell’ex Fiat, Stellantis è nel mirino di politici, giornalisti e uomini d’affari. La società, nata nel 2021 dalla fusione su basi “paritetica” tra l’italo-americano FCA e la francese PSA, sembra avere il torcicollo verso Parigi. Nelle scorse settimane è stata inaugurata una gigafactory a Douvrin, nella regione di Hauts-de-France, per la produzione di batterie per auto elettriche. A regime entro il 2030 avrà una capacità di 40 GWh e 6.000 dipendenti. Lo stabilimento è frutto di una joint-venture con Mercedes e Total.

L’investimento è costato 7 miliardi di euro, di cui 2,8 miliardi di sostegni pubblici.

Una struttura simile nascerà presto in Germania, nei pressi di Berlino. Anche in questo caso, sarà opera di Stellantis. E in Italia? A partire dal 2026 dovrebbe nascere una gigafactory a Termoli (Molise) con capacità di 40 GWh e che impiegherà 2.000 dipendenti. Solo che sui tempi di questa realizzazione non esistono grandi certezze. Soprattutto, la società guidata da Carlo Tavares e di cui John Elkann è presidente sta mostrando scarso interesse ad investire nel Bel Paese.

Stato francese al 6,15%

Ed è così che il governo Meloni è andato su tutte le furie. Per la serie “adesso, basta”, il ministro per il Made in Italy, Adolfo Urso, ha prospettato l’ingresso dello stato nel capitale di Stellantis attraverso Cassa depositi e prestiti. La ragione? Pare che lo sbilanciamento a favore della Francia sia dovuto al fatto che lo stato francese detenga la più alta quota di capitale dopo gli azionisti privati a capo delle case automobilistiche fusesi. Con il 6,15% posseduto attraverso BPI France, la banca d’investimenti pubblica, Parigi ottiene non solo rispetto, ma anche investimenti.

Lo stato italiano non è presente nel capitale di Stellantis, se non attraverso una quota minima dell’1,13% in mano a Banca d’Italia. La quota di BPI France è un’eredità del salvataggio di Peugeot nel decennio passato.

Lo stato francese intervenne per tutelare il comparto automotive, ma in cambio dei prestiti volle una quota di azioni. Interrogato sul possibile ingresso dello stato italiano, John Elkann ha risposto che ciò avviene quando le aziende vanno male. Invece, ha voluto precisare, Stellantis va bene. L’anno scorso ha chiuso con un fatturato di 180 miliardi e un utile netto di 16,8 miliardi.

In borsa Stellantis vale sopra 50 miliardi, per cui CDP dovrebbe spendere più di 3 miliardi per pareggiare la presenza dello stato francese nel capitale. Si arriverà a tanto? Il punto è che un eventuale ingresso “ostile” rischierebbe di non sortire l’effetto sperato. Solo se l’ente del Tesoro riuscisse a fare asse con i numerosi fondi stranieri azionisti, la partita diverrebbe pericolosa per Exor e Peugeot. Improbabile uno scontro di tale livello. Più verosimile che la minaccia porti John Elkann a più miti consigli. L’opinione pubblica italiana non è mai stata tenera con la galassia Agnelli. E’ considerata ingrata verso il nostro Paese dopo avere attinto a piene mani ai fondi pubblici tra sempiterni incentivi e cassa integrazione.

Ingresso nel capitale Stellantis o ricerca di alternative?

C’è un’altra minaccia che potrebbe impensierire Stellantis. La scorsa settimana, Palazzo Chigi ha ospitato il CEO di Tesla, Elon Musk. L’uomo più ricco del mondo è in sintonia con la premier Giorgia Meloni su vari temi, a partire dalla necessità di sostenere le nascite in Italia. I due hanno discusso di vari dossier, ma è evidente che al centro del colloquio vi sia stata la richiesta di Roma di aprire uno stabilimento automobilistico sul nostro territorio nazionale. Richiesta arrivata anche dal presidente francese Emmanuel Macron, che Musk ha incontrato subito dopo.

L’Italia è stata ad oggi praticamente solo Stellantis sul piano della produzione di auto. Un eventuale cambiamento in tal senso avrebbe effetti dirompenti sia sull’opinione pubblica che sul potere politico dell’ex Fiat.

La presenza di un forte concorrente sul mercato italiano potrebbe incentivare John Elkann a tornare a guardare ai nostri stabilimenti. In Francia la società produce 600.000 autovetture all’anno, in Italia meno di 473.000. Questione anche di logistica, a sentire il costruttore. Fatto sta che il problema non è che la società non sia amministrata su basi paritarie come da accordi. E’ che Exor stessa non si sente più italiana e tramite il suo presidente non fa che ostentarlo ad ogni occasione possibile.

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