Il 2017 potrà diventare l’anno della riscossa degli azionisti ai danni dei manager delle società. Almeno è quanto sperano molti tra i primi, specie nel Regno Unito, dove i tre quarti delle società quotate all’Ftse 100 potrebbero cambiare quest’anno policy con riguardo ai generosi stipendi corrisposti ai ceo. Quando il paese fu costretto a salvare con fior di quattrini pubblici le banche, tra il 2007 e il 2009, divampò un dibattito pubblico sulla correttezza dei mega-stipendi dei manager, che si tradusse sotto il governo Cameron, allora in coalizione con i liberaldemocratici, in una legge, che impose alle società quotate a Londra di rivedere la loro politica retributiva ogni tre anni.

E proprio nel 2017 scadono i termini per i tre quarti di loro, anche se ciò non significa necessariamente che verranno tagliati i bonus o altre componenti della retribuzione dei manager.

E’ accaduto, ad esempio, che gli azionisti di Crest Nicholson abbiano di recente votato a maggioranza del 58% per ridurre i bonus, ma essendo la delibera non vincolante, l’azienda sta portando avanti la stessa policy di prima. In altri casi, il 40% degli azionisti di Glencore e il 32,3% di Thomas Cook hanno votato contro le politiche retributive adottate dalle rispettive società con esiti differenti. Thomas Cook ha fatto un passo indietro proprio sui bonus previsti per il ceo Peter Frankhauser, che avrebbero accresciuto lo stipendio di base del 225%. (Leggi anche: Stipendi manager, riduzione solo per aziende pubbliche)

Stipendi manager continuano a crescere

E Imperial Brands ha cancellato un premio da 3 milioni di sterline, che avrebbe innalzato lo stipendio del ceo Alison Cooper a 8,5 milioni, nel caso di raggiungimento di tutti i target.

Ma l’era dei mega-stipendi non è affatto morta, come dimostra uno studio del Wall Street Journal, secondo cui le società americane avrebbero aumentato mediamente del 6,8% le già alte retribuzioni ai loro manager nel 2016, con più del doppio di loro ad averle aumentate, rispetto a quelle che le avrebbero tagliate.

Il caso Valeant

Uno dei casi eclatanti di disconnessione tra risultati e stipendi dei manager negli ultimi tempi è quello della società farmaceutica canadese Valeant, il cui ceo Joseph Papa, in carico solamente dal maggio scorso, ha ricevuto per l’anno passato una retribuzione complessiva di ben 63 milioni di dollari, di cui appena 981.000 legati allo stipendio di base, mentre il resto è stato composto da opzioni (10 milioni), bonus (9,1 milioni) e azioni (42 milioni).

Quale sarebbe il problema con lo stipendio da sogno di Papa? Che sotto di lui, le azioni hanno perso ben il 67% e la società ha registrato un “buco” da 2,4 miliardi, evitando il fallimento solo per un soffio, essendo oggetto di indagini per frode e manipolazione dei prezzi farmaceutici. Vero è che Papa è arrivato proprio per fare pulizia della passata gestione e che per la sua collaborazione si è reso necessario corrispondergli uno stipendio allettante, secondo i criteri del mercato, ma resta il fatto che una società quasi in fallimento starebbe “strapagando” un manager per risultati ancora nemmeno lontanamente percepiti.

Le proposte del governo May

Il problema degli stipendi dei manager, spiega il vice-boss di ShareSoc, Roger Lawson, sarebbe culturale, ovvero gli azionisti raramente si mostrerebbero contrariati dalle politiche retributive adottate dalle società, temendo altrimenti di perdere presa sul management, quasi come se rischiassero di venire tagliati fuori dagli ambienti che contano. In realtà, se ciò appare verissimo per il recente passato, la loro voce inizia a farsi sentire da tempo, sostenuta persino da governi di inclinazioni conservatrici, come quello di Theresa May, che dopo il referendum sulla Brexit, arrivando al n.10 di Downing Street, tra le sue priorità presentava anche misure per accrescere il controllo del capitale sui mega-stipendi dei ceo.

La May vorrebbe costringere le società a vincolare le loro politiche sugli stipendi dei manager al voto degli azionisti, nonché a pubblicare periodicamente sia tali retribuzioni, sia il loro rapporto con lo stipendio medio dei lavoratori alle loro dipendenze.

Una sorta di effetto stigma ricercato, insomma, che dovrebbe frenare le società dal darsi a politiche scriteriate. (Leggi anche: Theresa May una Thatcher dai tratti labour?)

Stipendi manager bancari sconvolsero il mondo

Che l’aria stia cambiando, lo dimostra anche Goldman Sachs, la banca d’affari americana forse simbolo del potere finanziario nel mondo. Dopo pressioni da parte degli azionisti, lo stipendio del ceo Lloyd Blankfein nel 2016 è stato tagliato del 27%, passando da 30 a 22 milioni, essendo stato tagliato un bonus legato a risultati di lungo termine e pari a circa 7,5 milioni.

In realtà, non saranno le leggi a forzare le società a mostrarsi moderate nelle loro politiche retributive. La crisi finanziaria del 2008, che spinse sull’orlo del lastrico decine di banche americane considerate infallibili fino a un secondo prima, ma i cui manager “scapparono” con finanche centinaia di milioni di dollari come “premi per il risultato”, hanno sconvolto e fatto esplodere d’ira l’opinione pubblica mondiale, la stessa chiamata nei rispettivi paesi a salvare spesso con propri denari i conti degli istituti che nel frattempo avevano strapagato i propri boss.

Sull’onda di tale rabbia popolare, anche l’azionariato ha preso coscienza di sé, forse ancora non a sufficienza, ma gradualmente si sta rendendo conto che il capitalismo per definizione si fonda sul capitale, non sui mega-stipendi di manager avulsi dalla realtà, che per la teoria dell’agente sarebbero meri esecutori degli interessi degli azionisti. Ed è il capitale che deve riappropriarsi del controllo delle aziende, avendo spesso delegato troppo per eccesso di fiducia e per timore di apparire altrimenti vetusto nelle dinamiche finanziarie moderne. Se anche la seconda donna a capo di un governo britannico, appartenente allo stesso partito della indimenticabile Margaret Thatcher, si pone il problema di come riportare coi piedi per terra una élite finanziaria apparentemente sfuggita di mano allo stesso sistema capitalistico, è il segno che i tempi stiano davvero cambiando.

(Leggi anche: Banchieri, stipendi super e risultati modesti: più potere agli azionisti?)