Cosa accadrebbe all’economia americana se Donald Trump rivincesse le elezioni presidenziali a novembre e tornasse alla Casa Bianca? Mercati e analisti da settimane iniziano a chiederselo con insistenza e seriamente, perché se si votasse oggi le probabilità di una sua vittoria sarebbero altissime. Da qui al 5 novembre mancano più di 100 giorni e l’ultima parola non è detta. Una cosa sembra, tuttavia, emergere dalle dichiarazioni del ticket composto dallo stesso Trump e dal suo vice James David Vance: non escludono una svalutazione del dollaro.

Svalutazione del dollaro ad oggi complicata

Il biglietto verde resta forte nel mondo. Risente di un’economia relativamente ben messa, mentre altrove è poco più che stagnante. E la Federal Reserve non sta riuscendo ad abbassare i tassi di interesse per via dell’inflazione ancora ampiamente sopra il target del 2%, con un tasso di disoccupazione in area 4%. Il resto lo fanno le tensioni geopolitiche, che spingono i capitali a cercare riparo presso i porti sicuri. E l’America lo è sopra ogni altro al mondo.

Il precedente con l’Accordo di Plaza

Secondo Vance, la svalutazione del dollaro serve per rendere le merci Made in USA più competitive. Il dollaro forte, spiega, “è una tassa sui produttori”. Trump negli anni ha avuto idee ambigue sul tema. Ma questo è stato sempre un terreno scivoloso per i repubblicani. Già ai tempi di Ronald Reagan c’era la sensazione che si dovesse intervenire per porre un freno al super dollaro, mentre d’altra parte il raziocinio invitava alla prudenza e al non intervento sul mercato dei cambi. Con il conseguimento del secondo mandato, si optò per il famoso Accordo di Plaza del 1985. In pratica, una svalutazione del dollaro orchestrata tra i ministri del Tesoro principali del tempo.

Una mossa del genere non è ormai neppure pensabile. Il mondo è cambiato e la politica incide in maniera meno diretta e pesante sulla formazione dei tassi di cambio.

Ma è pur vero che Trump, se rieletto, non vorrà assistere a lungo a un cambio euro-dollaro prossimo alla parità. Era a 1,60 nella primavera del 2008. Da allora, perde un terzo del valore e da troppo tempo. Ma come avverrebbe la svalutazione del dollaro in termini pratici? L’idea che la Fed si metta a comprare euro, sterline, yen, franchi svizzeri, ecc., è da scartare. Sarebbe un atto di “guerra valutaria” bello e buono.

Banche centrali e tassi di interesse

Ci sono meccanismi più “puliti” per indebolire il cambio. La banca centrale può manovrare i tassi di interesse reali. In pratica, se l’inflazione salisse, non alzerebbe i tassi nominali. O se l’inflazione scendesse, ridurrebbe ancora più velocemente i tassi nominali. Ad esempio, oggi abbiamo tassi Fed al 5,50% con un’inflazione del 3%. I tassi reali sono al 2,50%. Poniamo che tra un anno, con Trump alla Casa Bianca, l’inflazione si sia dimezzata all’1,50% e la Fed abbia abbassato i tassi al 2%, cioè ad appena lo 0,50% reale. Il dollaro perderebbe forza, dato che attualmente il mercato sconta tassi al 4% tra un anno con un’inflazione in media di poco sopra il 2% (reali quasi al 2%). I capitali uscirebbero dagli Stati Uniti per dirigersi altrove.

Sarebbe ingenuo pensare che Trump possa cavarsela così facilmente. Se la Fed abbassa i tassi, automaticamente fa sì che tutte le altre banche centrali nel mondo dispongano anch’esse di margini per tagliare i rispettivi tassi. Va a finire che i tassi americani ridiventino appetibili poco dopo. In pratica, l’economia non è un gioco “one shot”, cioè caratterizzato da un’unica mossa. Essa è fatta da azioni, reazioni e controreazioni. Ognuna tende a neutralizzare il colpo altrui.

Europa e Giappone vogliono cambi più forti

Dunque, svalutazione del dollaro impossibile? Con ogni probabilità non nella misura che avrebbe in mente Trump.

Dopo Plaza, il cambio americano perse in media la metà del suo valore entro qualche anno. Non è immaginabile che avvenga in questo caso. Ma è altresì vero che un dollaro un po’ meno forte lo vogliano Europa e Giappone, restando tra le grandi economie avanzate. Tokyo è da quasi due anni che a tratti interviene sul mercato forex a sostegno dello yen. Non ci sarebbe di meglio per il suo governatore di apprendere che Washington si ponga l’obiettivo di indebolire il dollaro.

E nel Vecchio Continente un euro e una sterlina troppo deboli non sono ben visti dai policy maker. Se si rafforzassero, i costi delle importazioni scenderebbero e con essi l’inflazione. Pensate al petrolio, che diverrebbe più economico, a parità di quotazioni, con una divisa statunitense meno forte. Ma questo implicherebbe una svalutazione del dollaro accettata fino a un certo punto. Nel nostro caso, la Banca Centrale Europea verosimilmente ambirebbe a rivedere un cambio a 1,20 o poco più. Spingersi troppo oltre comporterebbe due rischi: deflazione e stagnazione economica tramite il collasso delle esportazioni.

Svalutazione dollaro con de-escalation militare globale

Sapete un paradosso? Trump riuscirebbe a centrare l’obiettivo di una svalutazione del dollaro di vasta portata se questi perdesse il suo status di valuta di riserva globale. Sarebbe il sogno dei nemici dell’America, tra cui Cina e Russia in testa. Non si realizzerà, perlomeno non per una dichiarata volontà della Casa Bianca. Più verosimile, invece, che tra tagli ai tassi Fed ed eventuale de-escalation delle tensioni geopolitiche, la propensione al rischio nel mondo aumenti e i capitali cerchino impiego altrove. Una ragione in più per il tycoon per mantenere la promessa di voler chiudere con le guerre in Ucraina e Israele. Passare ai fatti sarà meno immediato.

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